venerdì 19 ottobre 2012

In groppa al dromedario verso l'oasi di Ozcine

di Cristiano Pellizzaro
fotografie di Sarah Kouhou


Esiste un luogo sull’altipiano triestino, dove basta varcare una porta e ci si ritrova nel mezzo di un deserto nordafricano accompagnati da neri dromedari dagli occhi rossi, in groppa ai quali è possibile esplorare questo mondo immaginario e fermare il tempo in modo da potersi permettere di immergersi totalmente nella musica mentre suoni dilatati ci cullano secondo il tempo scandito dalla base ritmica che regge il gioco e ci permette di viaggiare senza sosta. E' di questo che si ha bisogno ogni tanto, in altre parole di un’allucinazione creata dalla musica piacevolmente suonata con passione.
Il mondo immaginario appena descritto non è per niente una dimensione nuova, gli stessi protagonisti di questa storia lo ammettono e mettono le mani avanti un po’ per correttezza nei confronti di chi prima di loro ha già creato mondi e personaggi di una propria mitologia o esplorato lande musicali desolate e allo stesso tempo floride di colori, sensazioni e atmosfere, e un po’ per evitare critiche, giudizi e commenti, perché, come scopriremo, si tratta di gente con i piedi ben saldi per terra che delle loro precedenti esperienze musicali ne hanno fatto un ricco vademecum per vivere e sopravvivere senza montarsi la testa.
Proprio per questo li ho scelti, perché oltre alla loro musica, che ad essere sincero mi piace e quindi è un mio giudizio personale di parte, la loro politica promozionale, se così possiamo chiamarla, e lo spirito con il quale affrontano quest’avventura sono sinceri e genuini. Senza aspettative di alcun genere.
Tutto questo inizia quattro anni fa in una sala prove immersa in un paradiso urbano, dove gli abitanti delle case immediatamente vicine sembrano non protestare mai. E già questa è roba di un altro mondo.
Proprio qui ho potuto incontrare una band molto interessante che volentieri vado a presentarvi.
Banalmente, come loro stessi ammettono, il nome deriva dalla passione comune dei membri della band per gli Ozric Tentacles e la località dove suonano. Ecco gli Ozcine quindi, un interessante band composta di quattro elementi, alcuni dei quali già noti nell’ambiente triestino, che per pura passione hanno realizzato questo progetto formato da amici che si divertono a fare musica priva di schemi o di qualsiasi altro elemento studiato a tavolino che possa impedire la libertà d’espressione artistica di ognuno di essi. La loro musica si basa principalmente sull’improvvisazione.
Per la loro formazione musicale, come già detto, oltre agli Ozric, sono molto vicini ad altre realtà esistenti come Tool oppure ai Gong, senza dimenticarsi che hanno un forte richiamo anche verso diversi nomi di quei furboni dei Corrieri Cosmici del crucco Kraut Rock.
Gli Ozcine suonano secondo il proprio stato d’animo ed eseguendo le musiche così come vengono in quel momento; partono da un riff o da un giro che uno di loro esegue anche durante la fase di allestimento degli strumenti. In questo modo prendono forma le loro session e sviluppano temi composti da dinamiche variabili sulle quali lavorano e si concentrano, mentre assistono alla proiezione di un film. Ed è proprio qui che avviene il bello, perché il film diventa parte integrante della loro musica catturando suoni e musiche elaborati all’istante. Un’esibizione in diretta ispirandosi al film proiettato.
Tutto è nato per caso da un’idea di Carlo Giacometti, soprannominato Mente per il suo piglio creativo e per il saper arrangiarsi in ogni situazione e questa sua trovata lo dimostra pienamente.
“Le prime volte, quando ancora l’idea era in fase di sperimentazione, utilizzavo spezzoni di serie televisive, frasi, parole o musiche che non necessariamente proiettavo in quel momento; le elaboravo al pc tramite software e le riproducevo. Poi invece ho deciso di passare alla sperimentazione del lavoro in tempo reale, in altre parole catturando suoni o tutto quello che poteva essere interessante mentre il film veniva proiettato. La cosa, anche se divertente e funzionale, si è dimostrata tutt’altro che facile”.
Per poter adoperare una pellicola, si deve conoscere la trama, andare a prendere le parti che si addicono e che si suppone possano andare bene con la musica suonata in quel momento e non è detto che ogni film possa andare bene. L’individuazione della parte del film che si pensa possa essere idonea, si basa su di una scelta del tutto personale di Carlo che procede con l’estrapolazione dei vari spezzoni, li cattura, li processa immediatamente e li riproduce; alcune volte li elabora a tal punto che non si riconoscono nemmeno dall’originale e vengono inseriti nel contesto della musica diventando così parte integrante dell’esecuzione di quel momento per creare un tappeto sonoro filtrato e deturpato nelle maniere più allucinanti.
Tutto questo accade mediante l’ausilio di una postazione di lavoro in continuo mutamento. Non per nulla Carlo per il suo ruolo all’interno nella band si autodefinisce “addetto alle varie ed eventuali”, mentre gli altri preferiscono definirlo “come un genio dei bit applicati ai suoni”. Oltre ad un vecchio sintetizzatore Korg Ms-10 semimodulare analogico collegato ad un delay e ad un Chorus, toglie o aggiunge strumenti come tastiere midi collegate al pc oppure sintetizzatori per pc che lui stesso crea, testa e sviluppa di volta in volta. Assieme a tutto questo adopera un macchinario agli ambienti musicali, ovvero un generatore di funzioni che possiede invece una certa familiarità con i laboratori di fisica e non a caso Carlo sta concludendo gli studi in Fisica della Materia Condensata.


Nessuna combinazione quindi, perché la considerevole connessione tra fisica e strumentazione è dovuta proprio alla materia di studio che gli ha permesso di capire come funzionano le cose, come anche il soprannome Mente, proprio come il custode delle mappe del film 1999 Fuga da New York, una pellicola che è nelle loro intenzioni adoperare prima o poi per qualche loro suonata, come pure Mad  Max. Perchè i film che prediligono sono di carattere futurista, fantascientifico o apocalittico sia vecchi che nuovi. Tutti film scelti da una lista prima di iniziare ogni volta. Una certa curiosità per qualche esperimento con film pornografici non nascondono di averla; dovrebbero contenere suoni interessanti da manipolare.
Scherzi a parte, o forse anche no, il lavorare durante la proiezione di un film li ha portati ad evolversi fino a raggiungere una situazione tale in cui ogni volta eseguono un concept album suonato senza interruzioni di alcun tipo per tutta la serata durante l’intera proiezione del film. Aprono e chiudono. Anche per più di due ore filate se le cose girano per il verso giusto.
Questa è la loro peculiarità, ma la struttura, la forza, l’anima invece?
Il ruolo forse più delicato, la ritmica, è affidata a due rodati amici di vecchia data e compagni di scorribande musicali oramai da svariati anni. Andrea Bonetti e Marco De Polo, rispettivamente batteria e basso degli Ozcine, non contano nemmeno più da quanti anni si conoscono. Assieme in vari progetti musicali, in molti se ricorderanno in un interessante band cittadino, e facente parte di quella schiera poco nutrita in città in quel periodo. Si trattava dei Myrrha, un quartetto d’impatto musicale e scenografico, protagonista di un percorso evolutivo partito da un misto tra rock, arabo e celtico degli inizi (ben distante della world music come qualcuno li aveva definiti), per arrivare ad un misto di New Wave, Elettronica e Sperimentale con spettacoli live con tanto di video proiezioni che andavano di pari passo con la musica, e gestiti dal tastierista e programmatore Alessandro Majcan, mentre la voce e la danza del ventre erano della bellissima Patrizia Haggiopulo.
Andrea e Marco, un’accoppiata vincente che si capisce al volo. Chissà a quanti faranno invidia. Non hanno bisogno di guardarsi, s’intendono e basta. Capiscono benissimo cosa l’altro sta per fare, quando suonano. Un determinato colpo sulle pelli e i piatti della batteria o una determinata scala sul manico o sui pick up del basso e di conseguenza l’altro sa come comportarsi e come agire di conseguenza sul proprio strumento.
Chiaro che l'intesa si viene a creare solamente in determinati momenti, quando la situazione lo permette, ma è altrettanto vero che tali situazioni possono accadere in casi in cui i musicisti sono veri e propri professionisti. A tal riguardo Marco ribadisce: “ho provato a suonare con bravissimi musicisti, ma non essendoci stata l’affinità, le cose non venivano come speravamo. Mancava qualcosa. Può accadere che le cose girino benissimo anche tra musicisti senza affinità alcuna, ma si deve trattare di professionisti, gente che s’intende al volo”.
Il cuore in due parti: uno dal seggiolino dietro la sua Yamaha 15000 acustica, arricchita con centralina di suoni elettronici Yamaha DTX 500 oltre a vari pad sparsi un po’ ovunque sul drum set in modo da ampliare la gamma di suoni, l’altro con lo scorrere delle dita lungo il manico del basso collegato ad un amplificatore tradizionale assieme ad una serie di effetti, più vecchi che moderni (scelta non casuale per una questione di gusti musicali), ed un Chorus appartenuto ad Ed Wynne, storico leader degli Ozric Tentacles; effetto non rubato ma reperito tramite una serie di conoscenze e clienti del negozio di musica dove lavora.
Il prezioso "Chorus"di Marco
Da qui viene fuori la musica degli Ozcine, che non è nulla di troppo complicato tendono a precisare in quanto non si tratta di tecnica e la loro musica è priva di tempi dispari o strutture articolate. Puntano a creare melodie non ossessive ma ripetitive in modo da dare spazio alla chitarra e all’effettistica per potersi sfogare e lasciarsi andare in cosmiche aperture spaziali. Ognuno di loro crea al momento, improvvisa dallo spunto che si genera da influenze e suggestioni musicali o rumoristiche esterne che cercano di riportare in musica.
Tutto questo però, per quanto possa sembrare senza limiti espressivi e forse anche tecnici, può trarre in inganno. Non è facile trovare musicisti ai quali piace suonare questo tipo di musica ben volentieri come la suonano loro e se ne vantano con giusto orgoglio.
“Il nostro modo di fare musica non da soddisfazione ai più degli addetti ai lavori perché solitamente l’attività media di ogni musicista è quella di creare una band, fare qualche cover assieme a qualche pezzo inedito, andare a suonare in giro, realizzare un demo con conseguente promozione e stare a vedere che succede”.
Quanto appena descritto, parte dal presupposto che tutti i brani devono essere strutturati in un determinato modo per un preciso tipo di pubblico. Loro invece non hanno nessun’ambizione al di fuori della loro sala prove; almeno al momento.
“Vogliamo divertirci e creare tutto in una salsa psichedelica, strana e se accadrà qualcosa a livello promozionale sarà una bella cosa, altrimenti andrà bene lo stesso. La nostra musica è difficile nel senso che non si tratta del solito giro d’accordi che in tanti sanno fare. Ammettiamo anche che la nostra tecnica è molto inferiore a quella di jazz o progressive band, che impegnandosi solamente al 10% non ci permetterebbero di raggiungerli minimamente anche se noi ci impegnassimo al 110%. Il nostro punto forte è la compattezza delle nostre anime artistiche, se così possiamo chiamarle, che hanno voglia di esprimersi per mezzo di questo tipo di musica ancora dopo cinque anni dalla nascita degli Ozcine, senza una finalità precisa e soprattutto senza stress alcuno. Tutti noi impegnati in questo nostro progetto, abbiamo alle spalle un passato da musicisti con demo promozionali, esperienze con partecipazioni a concorsi, serate nei locali o comunque in giro per farsi conoscere, periodi in studio di registrazione magari con qualche straccio di contratto. Cose che richiedevano impegno, precisione, metronomi con il conseguente e unico sogno-illusione come tanti di poter apparire sugli schermi di Mtv. Una delle solite e tante storie. La difficoltà dunque di quello che facciamo sta nel trovare il motivo e la situazione per farlo. Quasi irripetibile e senza una finalità”.
Eppure gli Ozcine hanno una ricca cassaforte piena della loro musica. Hanno sempre registrato tutto. Nulla hanno lasciato che si perdesse dopo aver spento i loro amplificatori e staccato la spina della sala prove. Da un primissimo registratore a cassette che chiamavano Studer, ora immortalano le loro session con uno Zoom H2, registratore digitale a memoria espandibile, poi riversano tutto sul pc, lo processano e lo ripuliscono. Ma che senso ha tutto questo lavoro di registrazione se non si ha nessuna finalità? Sicuramente è complice il piacere di riascoltarsi non solamente a fine serata per provare il piacere di valutare il proprio prodotto ma anche per poter verificare il progresso fatto nel corso del tempo. Una giusta intuizione, messa in pratica da molti ma non da tutti, e questo se permettete è un grosso errore. Lo stesso Frank Zappa registrava tutto ogni volta. E questo permetteva non solamente di tirare fuori un giro di basso oppure un passaggio che non ci si ricordava più. Grazie a questo sistema, oggidì sembra che gli eredi Zappa siano in possesso di interminabili ore di registrazione avvenute non solamente in fase di prove dei vari lavori ma anche nelle varie jam session che Zappa ha tenuto con moltissimi musicisti.
Chi degli Ozcine è il curatore delle registrazioni e custode dell’archivio sonoro, è anche chitarrista cosmico delle sonorità spaziali e dilatate. Alessandro Sartore, amante del Delay con un  passato in studio di registrazione sia come fonico che come musicista, al contrario di tutti gli altri suonatori delle sei corde, non emerge mai come solista del gruppo. Per puro piacere e divertimento, essenziali nell’ambito della Ozcine music, il suo ruolo è quello di creare il mix sonoro fatto di tappeti di suoni sui quali si appoggia tutto il resto della loro musica. Sembrerà paradossale, ma la sua chitarra forse esegue molte più note basse di quante ne esegue il basso di Marco che in quel preciso istante genera suoni e lamenti assurdi che riportano alla mente quanto potrebbe creare un synth.
Anche in questo caso, non c’è niente di troppo complicato nella strumentazione: una chitarra Telecaster, oppure una semi acustica Crafter SA, con le quali crea suoni elettrici in alternanza con altri più dolci a seconda delle dinamiche dell’esecuzione che si sviluppano in quel dato momento. L’amplificatore invece è stato proprio ricercato per una questione di gusti personali.“Si tratta di un Sessionette degli anni ’80 a mosfet transistor, prodotto ancora oggi e in Inghilterra costa un mucchio di soldi. Il mio esemplare l’ho trovato usato per pura coincidenza a modico prezzo; dove me l’hanno venduto nemmeno conoscevano la marca e le potenzialità. L'avevo scovato dopo vent’anni di ricerca e finalmente ero riuscito ad averlo. Si tratta di una ricerca iniziata quando ero ancora bambino e leggevo le varie riviste di chitarra che mi passava mio fratello maggiore, chitarrista anche lui. Non potevo trovare di meglio per la nostra musica. Le sue potenzialità si adattano benissimo”.
Insomma gli Ozcine, una realtà musicale del sottobosco triestino immersa nella musica svincolata da clichè, schemi, obblighi e quanto altro si potrebbe ancora dire.
Poco di nuovo fino a qui o forse nulla d’accordo, ma sono cosciente e sincero di aver voluto incontrare questi quattro ragazzi per il loro estro, passione e voglia di fare musica buona. Ammettiamo anche che le spazialità sonore che creano non sono roba per tutti e che molto bene hanno riproposto quanto già piantato e coltivato da molti altri prima di loro; ma ognuno di loro ha anche altri progetti del tutto diversi e se vogliamo, molto più ambizioni rispetto agli Ozcine.
Andrea sta preparando alcuni live assieme ad una Progressive-Metal band dal nome Seven, quindi brani precisi nell’esecuzione che non durano meno di sette minuti. Carlo a tutti gli effetti è un chitarrista rock con anima blues e assieme al fratello Sandro suona nel Giacometti di Fiore Giacometti Trio, dedito a cover e brani inediti di Blues, Soul e Rock, oltre a scatenarsi con le improvvisazioni dei Collettivo Molesto!. Alessandro invece non si accontenta e addirittura forma assieme alla cantante Erica Bognolo il duo acustico degli Infocus, suona in una tribute band dei Pink Floyd da nome Pink Moon e collabora con una band molto curiosa dal nome Iboga Vision dove suoni eseguiti in stile Doors vanno a mischiarsi a sonorità etniche e percussive. Al contrario di tutti gli altri, Marco è l’unico che oltre a questa situazione non suona con nessun altro tanto è appagato da questo progetto che lo riporta con la mente ai suoi viaggi in moto in Tunisia attraverso il deserto, dove incontra saltuariamente i dromedari, da qui mutati nell’aspetto e negli occhi e diventati le loro mascotte. Allora perché esistono gli Ozcine, questa band nata per gioco che non soltanto vuole non tirarsi fuori dalla sala prove ma neppure realizzare un prodotto finito, quando potrebbe lasciare un bel ricordo della sua presenza?
“A noi piace suonare e basta, e ci teniamo a ripeterlo. Più che fare musica forse facciamo rumore. Siamo contenti di suonare senza nessun tipo di vincolo. Per ognuno di noi è la situazione musicale che più si adatta alle proprie esigenze creative. Per noi suonare come Ozcine è uno sfogo, un eliminare le tossine accumulate durante tutta la settimana, è la situazione che ci diverte di più di tutte quelle che abbiamo fuori di qui. Suoniamo principalmente per noi senza il voler piacere agli altri. Se poi chi ci ascolta rimane ben impressionato, allora sarà sicuramente dovuto al fatto che la nostra musica ricorda quella di altri nomi già citati.
Se esistiamo ancora dopo quattro anni, anche se non abbiamo un obbiettivo ben definito, è perché dalle nostre precedenti esperienze ne siamo usciti maturati, siamo coscienti che musica come la nostra non essendo adatta a tutti è difficile da portare fuori dalla sala prove, anche se ci sono svariate opportunità di luoghi alternativi o festival come il Pietrasonica o il Land Art Aeson. Riteniamo che la nostra musica sia ancora acerba o forse è solo una questione di tempi. Se dovrà accadere qualcosa accadrà, ma per ora rimaniamo qui senza scannarci in preda allo scazzo perché non è accaduta ancora nulla o chissà che cos’altro. Come già detto, per noi questa è una sorta di terapia d’urto contro tutto lo stress giornaliero che alcune volte sfocia in distruzione di coni di amplificatori e lanci di vecchi e malconci bassi in giardino a fine prove.
 Abbiamo però pensato anche ad altre cose da inserire nella nostra musica come ad esempio dei pennelli sonori, una trovata assieme ad Alessadro Majcan, l’ex tastierista dei Myrrha che ora vive in Spagna. Vorremmo inserire dei sensori nei pennelli di un pittore in modo da catturare i suoni mentre dipinge sulle note della nostra musica in modo da far interagire i rumori delle sue strisciate catturandole ed elaborandole assieme alla nostra musica. Ovviamente non è una cosa facile da portare a termine; ci vorrebbe organizzazione e mezzi idonei per farlo, e se vuoi fare le cose che ti piacciono non devi seguire nessuna politica commerciale che ti impone di fare brani della durata massima di quattro minuti. Abbiamo già dato il nostro a tal riguardo e la disillusione gioca per noi un ruolo importante ora che abbiamo raggiunto un’espressione che va ben oltre i limiti facilmente imponibili e quindi siamo divenuti alternativi o forse anche asociali.
Forse abbiamo anche perso per un certo verso quella voglia di ricerca di soddisfazione nell’esibirsi in pubblico e arrivati a questo punto, e facendo questo tipo di musica, per noi vorrebbe dire denudarsi davanti agli altri”.


Ogni scelta va rispettata e per quanto ritengo che gli Ozcine siano sprecati in sala prove, appoggio quanto hanno detto.
Prima di sentire la loro musica, difficilmente pensavo che avrei mai potuto rivivere determinate sensazioni che da anni oramai tenevo nello scrigno dei ricordi. Roba che apparteneva al passato ma non perché avessi deciso di voltare pagina o chissà per quale altro motivo ma più semplicemente perché era una parte della mia vita che aveva fatto il suo corso, quindi potevo solamente continuare il mio percorso evolutivo e tenere ben presente quanti bellissimi brividi, sogni ad occhi aperti o viaggi immaginari mi avessero fatto intraprendere alcune musiche alle quali mi ero avvicinato come un pezzo di ferro ad una calamita. Sensazioni inspiegabili e irripetibili che le prime volte ti sconquassano, poi ti diventano complici, poi amiche e in fine sagge consigliere. A questo punto può capitare che queste sensazioni rimangano nascoste anche per anni fino a riemergere senza avviso e travolgendoti in maniera così violenta e inaspettata che ti portano a scuoterti da solo per cercare di svegliarti anche se non stai dormendo.
Ogni musica regala sensazioni e brividi diversi, ma quello che gli Ozcine mi hanno regalato è stato qualcosa che va ben oltre al rivivere quello che credevo non poteva più avvenire, ma soprattutto sono stati loro a regalarmi nuovamente quella sensazione che solitamente solo i primi dischi che avevo ascoltato riescono a darmi ancora.
Allora, salgo nuovamente in groppa al dromedario nero dagli occhi rossi per farmi portare ancora una volta attraverso il deserto verso l’oasi di Ozcine.