venerdì 19 ottobre 2012

In groppa al dromedario verso l'oasi di Ozcine

di Cristiano Pellizzaro
fotografie di Sarah Kouhou


Esiste un luogo sull’altipiano triestino, dove basta varcare una porta e ci si ritrova nel mezzo di un deserto nordafricano accompagnati da neri dromedari dagli occhi rossi, in groppa ai quali è possibile esplorare questo mondo immaginario e fermare il tempo in modo da potersi permettere di immergersi totalmente nella musica mentre suoni dilatati ci cullano secondo il tempo scandito dalla base ritmica che regge il gioco e ci permette di viaggiare senza sosta. E' di questo che si ha bisogno ogni tanto, in altre parole di un’allucinazione creata dalla musica piacevolmente suonata con passione.
Il mondo immaginario appena descritto non è per niente una dimensione nuova, gli stessi protagonisti di questa storia lo ammettono e mettono le mani avanti un po’ per correttezza nei confronti di chi prima di loro ha già creato mondi e personaggi di una propria mitologia o esplorato lande musicali desolate e allo stesso tempo floride di colori, sensazioni e atmosfere, e un po’ per evitare critiche, giudizi e commenti, perché, come scopriremo, si tratta di gente con i piedi ben saldi per terra che delle loro precedenti esperienze musicali ne hanno fatto un ricco vademecum per vivere e sopravvivere senza montarsi la testa.
Proprio per questo li ho scelti, perché oltre alla loro musica, che ad essere sincero mi piace e quindi è un mio giudizio personale di parte, la loro politica promozionale, se così possiamo chiamarla, e lo spirito con il quale affrontano quest’avventura sono sinceri e genuini. Senza aspettative di alcun genere.
Tutto questo inizia quattro anni fa in una sala prove immersa in un paradiso urbano, dove gli abitanti delle case immediatamente vicine sembrano non protestare mai. E già questa è roba di un altro mondo.
Proprio qui ho potuto incontrare una band molto interessante che volentieri vado a presentarvi.
Banalmente, come loro stessi ammettono, il nome deriva dalla passione comune dei membri della band per gli Ozric Tentacles e la località dove suonano. Ecco gli Ozcine quindi, un interessante band composta di quattro elementi, alcuni dei quali già noti nell’ambiente triestino, che per pura passione hanno realizzato questo progetto formato da amici che si divertono a fare musica priva di schemi o di qualsiasi altro elemento studiato a tavolino che possa impedire la libertà d’espressione artistica di ognuno di essi. La loro musica si basa principalmente sull’improvvisazione.
Per la loro formazione musicale, come già detto, oltre agli Ozric, sono molto vicini ad altre realtà esistenti come Tool oppure ai Gong, senza dimenticarsi che hanno un forte richiamo anche verso diversi nomi di quei furboni dei Corrieri Cosmici del crucco Kraut Rock.
Gli Ozcine suonano secondo il proprio stato d’animo ed eseguendo le musiche così come vengono in quel momento; partono da un riff o da un giro che uno di loro esegue anche durante la fase di allestimento degli strumenti. In questo modo prendono forma le loro session e sviluppano temi composti da dinamiche variabili sulle quali lavorano e si concentrano, mentre assistono alla proiezione di un film. Ed è proprio qui che avviene il bello, perché il film diventa parte integrante della loro musica catturando suoni e musiche elaborati all’istante. Un’esibizione in diretta ispirandosi al film proiettato.
Tutto è nato per caso da un’idea di Carlo Giacometti, soprannominato Mente per il suo piglio creativo e per il saper arrangiarsi in ogni situazione e questa sua trovata lo dimostra pienamente.
“Le prime volte, quando ancora l’idea era in fase di sperimentazione, utilizzavo spezzoni di serie televisive, frasi, parole o musiche che non necessariamente proiettavo in quel momento; le elaboravo al pc tramite software e le riproducevo. Poi invece ho deciso di passare alla sperimentazione del lavoro in tempo reale, in altre parole catturando suoni o tutto quello che poteva essere interessante mentre il film veniva proiettato. La cosa, anche se divertente e funzionale, si è dimostrata tutt’altro che facile”.
Per poter adoperare una pellicola, si deve conoscere la trama, andare a prendere le parti che si addicono e che si suppone possano andare bene con la musica suonata in quel momento e non è detto che ogni film possa andare bene. L’individuazione della parte del film che si pensa possa essere idonea, si basa su di una scelta del tutto personale di Carlo che procede con l’estrapolazione dei vari spezzoni, li cattura, li processa immediatamente e li riproduce; alcune volte li elabora a tal punto che non si riconoscono nemmeno dall’originale e vengono inseriti nel contesto della musica diventando così parte integrante dell’esecuzione di quel momento per creare un tappeto sonoro filtrato e deturpato nelle maniere più allucinanti.
Tutto questo accade mediante l’ausilio di una postazione di lavoro in continuo mutamento. Non per nulla Carlo per il suo ruolo all’interno nella band si autodefinisce “addetto alle varie ed eventuali”, mentre gli altri preferiscono definirlo “come un genio dei bit applicati ai suoni”. Oltre ad un vecchio sintetizzatore Korg Ms-10 semimodulare analogico collegato ad un delay e ad un Chorus, toglie o aggiunge strumenti come tastiere midi collegate al pc oppure sintetizzatori per pc che lui stesso crea, testa e sviluppa di volta in volta. Assieme a tutto questo adopera un macchinario agli ambienti musicali, ovvero un generatore di funzioni che possiede invece una certa familiarità con i laboratori di fisica e non a caso Carlo sta concludendo gli studi in Fisica della Materia Condensata.


Nessuna combinazione quindi, perché la considerevole connessione tra fisica e strumentazione è dovuta proprio alla materia di studio che gli ha permesso di capire come funzionano le cose, come anche il soprannome Mente, proprio come il custode delle mappe del film 1999 Fuga da New York, una pellicola che è nelle loro intenzioni adoperare prima o poi per qualche loro suonata, come pure Mad  Max. Perchè i film che prediligono sono di carattere futurista, fantascientifico o apocalittico sia vecchi che nuovi. Tutti film scelti da una lista prima di iniziare ogni volta. Una certa curiosità per qualche esperimento con film pornografici non nascondono di averla; dovrebbero contenere suoni interessanti da manipolare.
Scherzi a parte, o forse anche no, il lavorare durante la proiezione di un film li ha portati ad evolversi fino a raggiungere una situazione tale in cui ogni volta eseguono un concept album suonato senza interruzioni di alcun tipo per tutta la serata durante l’intera proiezione del film. Aprono e chiudono. Anche per più di due ore filate se le cose girano per il verso giusto.
Questa è la loro peculiarità, ma la struttura, la forza, l’anima invece?
Il ruolo forse più delicato, la ritmica, è affidata a due rodati amici di vecchia data e compagni di scorribande musicali oramai da svariati anni. Andrea Bonetti e Marco De Polo, rispettivamente batteria e basso degli Ozcine, non contano nemmeno più da quanti anni si conoscono. Assieme in vari progetti musicali, in molti se ricorderanno in un interessante band cittadino, e facente parte di quella schiera poco nutrita in città in quel periodo. Si trattava dei Myrrha, un quartetto d’impatto musicale e scenografico, protagonista di un percorso evolutivo partito da un misto tra rock, arabo e celtico degli inizi (ben distante della world music come qualcuno li aveva definiti), per arrivare ad un misto di New Wave, Elettronica e Sperimentale con spettacoli live con tanto di video proiezioni che andavano di pari passo con la musica, e gestiti dal tastierista e programmatore Alessandro Majcan, mentre la voce e la danza del ventre erano della bellissima Patrizia Haggiopulo.
Andrea e Marco, un’accoppiata vincente che si capisce al volo. Chissà a quanti faranno invidia. Non hanno bisogno di guardarsi, s’intendono e basta. Capiscono benissimo cosa l’altro sta per fare, quando suonano. Un determinato colpo sulle pelli e i piatti della batteria o una determinata scala sul manico o sui pick up del basso e di conseguenza l’altro sa come comportarsi e come agire di conseguenza sul proprio strumento.
Chiaro che l'intesa si viene a creare solamente in determinati momenti, quando la situazione lo permette, ma è altrettanto vero che tali situazioni possono accadere in casi in cui i musicisti sono veri e propri professionisti. A tal riguardo Marco ribadisce: “ho provato a suonare con bravissimi musicisti, ma non essendoci stata l’affinità, le cose non venivano come speravamo. Mancava qualcosa. Può accadere che le cose girino benissimo anche tra musicisti senza affinità alcuna, ma si deve trattare di professionisti, gente che s’intende al volo”.
Il cuore in due parti: uno dal seggiolino dietro la sua Yamaha 15000 acustica, arricchita con centralina di suoni elettronici Yamaha DTX 500 oltre a vari pad sparsi un po’ ovunque sul drum set in modo da ampliare la gamma di suoni, l’altro con lo scorrere delle dita lungo il manico del basso collegato ad un amplificatore tradizionale assieme ad una serie di effetti, più vecchi che moderni (scelta non casuale per una questione di gusti musicali), ed un Chorus appartenuto ad Ed Wynne, storico leader degli Ozric Tentacles; effetto non rubato ma reperito tramite una serie di conoscenze e clienti del negozio di musica dove lavora.
Il prezioso "Chorus"di Marco
Da qui viene fuori la musica degli Ozcine, che non è nulla di troppo complicato tendono a precisare in quanto non si tratta di tecnica e la loro musica è priva di tempi dispari o strutture articolate. Puntano a creare melodie non ossessive ma ripetitive in modo da dare spazio alla chitarra e all’effettistica per potersi sfogare e lasciarsi andare in cosmiche aperture spaziali. Ognuno di loro crea al momento, improvvisa dallo spunto che si genera da influenze e suggestioni musicali o rumoristiche esterne che cercano di riportare in musica.
Tutto questo però, per quanto possa sembrare senza limiti espressivi e forse anche tecnici, può trarre in inganno. Non è facile trovare musicisti ai quali piace suonare questo tipo di musica ben volentieri come la suonano loro e se ne vantano con giusto orgoglio.
“Il nostro modo di fare musica non da soddisfazione ai più degli addetti ai lavori perché solitamente l’attività media di ogni musicista è quella di creare una band, fare qualche cover assieme a qualche pezzo inedito, andare a suonare in giro, realizzare un demo con conseguente promozione e stare a vedere che succede”.
Quanto appena descritto, parte dal presupposto che tutti i brani devono essere strutturati in un determinato modo per un preciso tipo di pubblico. Loro invece non hanno nessun’ambizione al di fuori della loro sala prove; almeno al momento.
“Vogliamo divertirci e creare tutto in una salsa psichedelica, strana e se accadrà qualcosa a livello promozionale sarà una bella cosa, altrimenti andrà bene lo stesso. La nostra musica è difficile nel senso che non si tratta del solito giro d’accordi che in tanti sanno fare. Ammettiamo anche che la nostra tecnica è molto inferiore a quella di jazz o progressive band, che impegnandosi solamente al 10% non ci permetterebbero di raggiungerli minimamente anche se noi ci impegnassimo al 110%. Il nostro punto forte è la compattezza delle nostre anime artistiche, se così possiamo chiamarle, che hanno voglia di esprimersi per mezzo di questo tipo di musica ancora dopo cinque anni dalla nascita degli Ozcine, senza una finalità precisa e soprattutto senza stress alcuno. Tutti noi impegnati in questo nostro progetto, abbiamo alle spalle un passato da musicisti con demo promozionali, esperienze con partecipazioni a concorsi, serate nei locali o comunque in giro per farsi conoscere, periodi in studio di registrazione magari con qualche straccio di contratto. Cose che richiedevano impegno, precisione, metronomi con il conseguente e unico sogno-illusione come tanti di poter apparire sugli schermi di Mtv. Una delle solite e tante storie. La difficoltà dunque di quello che facciamo sta nel trovare il motivo e la situazione per farlo. Quasi irripetibile e senza una finalità”.
Eppure gli Ozcine hanno una ricca cassaforte piena della loro musica. Hanno sempre registrato tutto. Nulla hanno lasciato che si perdesse dopo aver spento i loro amplificatori e staccato la spina della sala prove. Da un primissimo registratore a cassette che chiamavano Studer, ora immortalano le loro session con uno Zoom H2, registratore digitale a memoria espandibile, poi riversano tutto sul pc, lo processano e lo ripuliscono. Ma che senso ha tutto questo lavoro di registrazione se non si ha nessuna finalità? Sicuramente è complice il piacere di riascoltarsi non solamente a fine serata per provare il piacere di valutare il proprio prodotto ma anche per poter verificare il progresso fatto nel corso del tempo. Una giusta intuizione, messa in pratica da molti ma non da tutti, e questo se permettete è un grosso errore. Lo stesso Frank Zappa registrava tutto ogni volta. E questo permetteva non solamente di tirare fuori un giro di basso oppure un passaggio che non ci si ricordava più. Grazie a questo sistema, oggidì sembra che gli eredi Zappa siano in possesso di interminabili ore di registrazione avvenute non solamente in fase di prove dei vari lavori ma anche nelle varie jam session che Zappa ha tenuto con moltissimi musicisti.
Chi degli Ozcine è il curatore delle registrazioni e custode dell’archivio sonoro, è anche chitarrista cosmico delle sonorità spaziali e dilatate. Alessandro Sartore, amante del Delay con un  passato in studio di registrazione sia come fonico che come musicista, al contrario di tutti gli altri suonatori delle sei corde, non emerge mai come solista del gruppo. Per puro piacere e divertimento, essenziali nell’ambito della Ozcine music, il suo ruolo è quello di creare il mix sonoro fatto di tappeti di suoni sui quali si appoggia tutto il resto della loro musica. Sembrerà paradossale, ma la sua chitarra forse esegue molte più note basse di quante ne esegue il basso di Marco che in quel preciso istante genera suoni e lamenti assurdi che riportano alla mente quanto potrebbe creare un synth.
Anche in questo caso, non c’è niente di troppo complicato nella strumentazione: una chitarra Telecaster, oppure una semi acustica Crafter SA, con le quali crea suoni elettrici in alternanza con altri più dolci a seconda delle dinamiche dell’esecuzione che si sviluppano in quel dato momento. L’amplificatore invece è stato proprio ricercato per una questione di gusti personali.“Si tratta di un Sessionette degli anni ’80 a mosfet transistor, prodotto ancora oggi e in Inghilterra costa un mucchio di soldi. Il mio esemplare l’ho trovato usato per pura coincidenza a modico prezzo; dove me l’hanno venduto nemmeno conoscevano la marca e le potenzialità. L'avevo scovato dopo vent’anni di ricerca e finalmente ero riuscito ad averlo. Si tratta di una ricerca iniziata quando ero ancora bambino e leggevo le varie riviste di chitarra che mi passava mio fratello maggiore, chitarrista anche lui. Non potevo trovare di meglio per la nostra musica. Le sue potenzialità si adattano benissimo”.
Insomma gli Ozcine, una realtà musicale del sottobosco triestino immersa nella musica svincolata da clichè, schemi, obblighi e quanto altro si potrebbe ancora dire.
Poco di nuovo fino a qui o forse nulla d’accordo, ma sono cosciente e sincero di aver voluto incontrare questi quattro ragazzi per il loro estro, passione e voglia di fare musica buona. Ammettiamo anche che le spazialità sonore che creano non sono roba per tutti e che molto bene hanno riproposto quanto già piantato e coltivato da molti altri prima di loro; ma ognuno di loro ha anche altri progetti del tutto diversi e se vogliamo, molto più ambizioni rispetto agli Ozcine.
Andrea sta preparando alcuni live assieme ad una Progressive-Metal band dal nome Seven, quindi brani precisi nell’esecuzione che non durano meno di sette minuti. Carlo a tutti gli effetti è un chitarrista rock con anima blues e assieme al fratello Sandro suona nel Giacometti di Fiore Giacometti Trio, dedito a cover e brani inediti di Blues, Soul e Rock, oltre a scatenarsi con le improvvisazioni dei Collettivo Molesto!. Alessandro invece non si accontenta e addirittura forma assieme alla cantante Erica Bognolo il duo acustico degli Infocus, suona in una tribute band dei Pink Floyd da nome Pink Moon e collabora con una band molto curiosa dal nome Iboga Vision dove suoni eseguiti in stile Doors vanno a mischiarsi a sonorità etniche e percussive. Al contrario di tutti gli altri, Marco è l’unico che oltre a questa situazione non suona con nessun altro tanto è appagato da questo progetto che lo riporta con la mente ai suoi viaggi in moto in Tunisia attraverso il deserto, dove incontra saltuariamente i dromedari, da qui mutati nell’aspetto e negli occhi e diventati le loro mascotte. Allora perché esistono gli Ozcine, questa band nata per gioco che non soltanto vuole non tirarsi fuori dalla sala prove ma neppure realizzare un prodotto finito, quando potrebbe lasciare un bel ricordo della sua presenza?
“A noi piace suonare e basta, e ci teniamo a ripeterlo. Più che fare musica forse facciamo rumore. Siamo contenti di suonare senza nessun tipo di vincolo. Per ognuno di noi è la situazione musicale che più si adatta alle proprie esigenze creative. Per noi suonare come Ozcine è uno sfogo, un eliminare le tossine accumulate durante tutta la settimana, è la situazione che ci diverte di più di tutte quelle che abbiamo fuori di qui. Suoniamo principalmente per noi senza il voler piacere agli altri. Se poi chi ci ascolta rimane ben impressionato, allora sarà sicuramente dovuto al fatto che la nostra musica ricorda quella di altri nomi già citati.
Se esistiamo ancora dopo quattro anni, anche se non abbiamo un obbiettivo ben definito, è perché dalle nostre precedenti esperienze ne siamo usciti maturati, siamo coscienti che musica come la nostra non essendo adatta a tutti è difficile da portare fuori dalla sala prove, anche se ci sono svariate opportunità di luoghi alternativi o festival come il Pietrasonica o il Land Art Aeson. Riteniamo che la nostra musica sia ancora acerba o forse è solo una questione di tempi. Se dovrà accadere qualcosa accadrà, ma per ora rimaniamo qui senza scannarci in preda allo scazzo perché non è accaduta ancora nulla o chissà che cos’altro. Come già detto, per noi questa è una sorta di terapia d’urto contro tutto lo stress giornaliero che alcune volte sfocia in distruzione di coni di amplificatori e lanci di vecchi e malconci bassi in giardino a fine prove.
 Abbiamo però pensato anche ad altre cose da inserire nella nostra musica come ad esempio dei pennelli sonori, una trovata assieme ad Alessadro Majcan, l’ex tastierista dei Myrrha che ora vive in Spagna. Vorremmo inserire dei sensori nei pennelli di un pittore in modo da catturare i suoni mentre dipinge sulle note della nostra musica in modo da far interagire i rumori delle sue strisciate catturandole ed elaborandole assieme alla nostra musica. Ovviamente non è una cosa facile da portare a termine; ci vorrebbe organizzazione e mezzi idonei per farlo, e se vuoi fare le cose che ti piacciono non devi seguire nessuna politica commerciale che ti impone di fare brani della durata massima di quattro minuti. Abbiamo già dato il nostro a tal riguardo e la disillusione gioca per noi un ruolo importante ora che abbiamo raggiunto un’espressione che va ben oltre i limiti facilmente imponibili e quindi siamo divenuti alternativi o forse anche asociali.
Forse abbiamo anche perso per un certo verso quella voglia di ricerca di soddisfazione nell’esibirsi in pubblico e arrivati a questo punto, e facendo questo tipo di musica, per noi vorrebbe dire denudarsi davanti agli altri”.


Ogni scelta va rispettata e per quanto ritengo che gli Ozcine siano sprecati in sala prove, appoggio quanto hanno detto.
Prima di sentire la loro musica, difficilmente pensavo che avrei mai potuto rivivere determinate sensazioni che da anni oramai tenevo nello scrigno dei ricordi. Roba che apparteneva al passato ma non perché avessi deciso di voltare pagina o chissà per quale altro motivo ma più semplicemente perché era una parte della mia vita che aveva fatto il suo corso, quindi potevo solamente continuare il mio percorso evolutivo e tenere ben presente quanti bellissimi brividi, sogni ad occhi aperti o viaggi immaginari mi avessero fatto intraprendere alcune musiche alle quali mi ero avvicinato come un pezzo di ferro ad una calamita. Sensazioni inspiegabili e irripetibili che le prime volte ti sconquassano, poi ti diventano complici, poi amiche e in fine sagge consigliere. A questo punto può capitare che queste sensazioni rimangano nascoste anche per anni fino a riemergere senza avviso e travolgendoti in maniera così violenta e inaspettata che ti portano a scuoterti da solo per cercare di svegliarti anche se non stai dormendo.
Ogni musica regala sensazioni e brividi diversi, ma quello che gli Ozcine mi hanno regalato è stato qualcosa che va ben oltre al rivivere quello che credevo non poteva più avvenire, ma soprattutto sono stati loro a regalarmi nuovamente quella sensazione che solitamente solo i primi dischi che avevo ascoltato riescono a darmi ancora.
Allora, salgo nuovamente in groppa al dromedario nero dagli occhi rossi per farmi portare ancora una volta attraverso il deserto verso l’oasi di Ozcine.

 

sabato 31 marzo 2012

Semplicemente...PASSIONE!! Intervista a Paolo Scamperle

di Cristiano Pellizzaro

www.myspace.com/latanadeigechi


Autunno 1998, mi passa per le mani il noto giornale di annunci della città. Come ogni volta che me lo ritrovo in mano, vado dritto alla pagina degli strumenti musicali oppure a quella dedicata alla vendita di Lp e Cd.
Trovo un annuncio che ricordo ancora: “Vendo bootlegs originali dei Doors”. Ancora oggi mi chiedo perché abbia voluto telefonare. Di rarità non mi sono mai interessato, di collezionismo nemmeno. I Doors erano e sono una delle mie band preferite ma ero convinto che quei bootlegs messi in vendita fossero quei cd che si trovavano nelle stazioni di servizio delle autostrade, negli scaffali di qualche libreria a basso costo, in qualche negozio di dischi che vendeva roba usata oppure edita da etichette mai sentite, la cui qualità delle registrazioni e del materiale lasciava molto desiderare. Ho sempre diffidato di questi materiali. Ero convinto che l’inserzionista fosse un ragazzino oramai nauseato da Jimbo e compagni oppure uno che insoddisfatto de quel tremendo organetto di Manzarek, malediva i compagni di scuola per averlo convinto ad ascoltarli.
Chiamai e inaspettatamente sentii la voce di una persona adulta. Questo particolare mi tranquillizzò e mi incuriosì ulteriormente. Ci mettemmo d’accordo e fissammo un appuntamento una sera dopo lavoro.
Mi presentai e trovai un distinto signore molto socievole e alla mano. Mi fece vedere il materiale in vendita e non credevo a quanto vedevo. Per la prima volta avevo in mano un bootleg originale in vinile. Ne possedeva tantissimi. Dopo tanti anni con questa persona sono ancora in contatto.
Paolo Scamperle potrebbe essere il vicino di casa che conosci da bambino e che non finisce mai di stupirti per le sue conoscenze ed esperienze.
In tutti questi anni Paolo per me è stato un consulente, un compagno di concerti, uno assieme al quale ho condiviso un sacco di materiale musicale per poter colmare la nostra sete di musica. E’ un’enciclopedia da sfogliare e studiare per conoscere a fondo argomenti interessanti da approfondire.

Ho cercato di condensare in un nostro incontro, la sua passione più grande per quanto riguarda la musica, ovvero le registrazioni live amatoriali.
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Ho iniziato con alcune domande banali che si giustificheranno nel corso dell’intervista.

C.P.: Quanti concerti pensi di aver visto in vita tua? Anche un numero anche ipotetico va bene.
P.S.: Non ho ancora stilato l’elenco dei concerti ai quali ho assistito. È da molto tempo che mi sono ripromesso di trasferire la mia memoria fisica ad una virtuale per quanto riguarda tutto quello che ricordo di artisti e concerti che ho visto dal vivo. Non l’ho ancoro fatto. Premetto però che non sono mai stato un pazzoide che andava a vedere tutto quello che gli capita a tiro, ma sono sempre stato molto selettivo. Sono un amante principalmente di Rock e Blues e di….. Patti Smith. Di lei   avrò visto una ventina di esibizioni in varie parti del mondo tra Italia, Slovenia,  Francia e Stati Uniti. Adesso così a freddo, come cifra posso dirti che in totale avrò visto tra cento e duecento esibizioni live,  sicuramente.

C.P.: Il concerto più bello che ti ricordi, quello che porti nel cuore, quello più curioso. Puoi citarne anche più di uno. So che hai visto tanti nomi particolari che sono passati alla storia. Hai assistito ad esibizioni davvero speciali.
P.S.: Uno solo da citare è davvero impossibile. Ce ne sono un paio che mi hanno segnato decisamente e che rammento  perché sono dei pilastri.
Iniziando in ordine cronologico ti dico gli Area per tutte quelle volte che sono venuti a suonare a Trieste. Gli Area hanno significato “crescita musicale”.Crescita, preciso, non nascita. Ricordo molto volentieri e in assoluto Bob Marley a Torino,  una delle due date  in Italia. Marley voleva dire vita, gioia. David Crosby, il sogno americano. Le sue canzoni erano davvero strane, piene di atmosfere particolari, arpeggi sulla chitarra acustica  davvero inusuali. Un sogno veramente. E poi c’è Patti Smith sicuramente. Non sono riuscito a vederla nel 1979 quando venne in Italia ma mi era sempre rimasta nel cuore. Nel  2001 ho avuto occasione di vederla per la prima  ed  è stato  un colpo di fulmine, un flash potentissimo che ha risvegliato in me, dopo tantissimi anni,  il ragazzino degli anni ’70; la sua musica era stata la mia “musica ribelle” dal ‘76 al ’79, gli anni di piombo, gli anni della mia formazione, anni  vissuti intensamente in tutti i sensi. 

C.P.: Avevo pensato a queste due domande per iniziare perché una volta ad un concerto che abbiamo visto assieme, B.B. King a Udine nel 2005, uno dei tuoi amici ti aveva chiesto quanti concerti pensavi di aver visto, e tu avevi detto “forse  200”. Quella volta ricordo che lo avevi detto come cifra ipotetica. So che come amante del rock e del blues hai visto tantissimi giganti. E ogni tanto parlando mi stupisci un po’ per il nome che mi tiri fuori, ma anche per il luogo dove lo hai visto quel determinato artista. Per esempio i Dire Straits a Lubiana. Ora è impensabile per chi non ci sia stato, che a Lubiana negli anni ’80, a quell’epoca girassero nomi di tale importanza. Solamente all’inizio del decennio successivo, quando si sarebbe sfasciata la Repubblica di Yugoslavia sarebbero venute fuori tante altre cose, e comunque ci sarebbe voluto un po’ di tempo.
P.S.: A Lubiana in quegli anni ho visto un sacco di gente importante. Oltre ai Dire Straits, ho visto anche Peter Green e Bo Diddley.

C.P.: Come? Bo Diddley a Lubiana?
P.S.: Sì sì, e a gratis ti dirò. Ci hanno aggiunto pure delle poltroncine perché si erano scordati di metterci via i biglietti. E non c’era più un posto libero.
In quel periodo si sa come andavano le cose da quelle parti. Giravi di notte e non c’era niente, solo poche e fioche luci per le strade. E di cose se ne sono viste lì, magari minori, non da mercato come i Dire Straits ma comunque cose di un certo spessore. Peter Green negli anni ’80 era roba da amanti del genere, Bo Diddley invece era da grandi cultori. Nonostante questo nei teatri c’erano giovani e militari jugoslavi che si muovevano impazziti sulle poltrone al ritmo di Bo Diddley !

C.P.: A Trieste pochissimi sanno del concerto di Klaus Schulze e tu ci sei stato…
P.S.: Ricordi male. Avevamo parlato di questo evento ma io non ci sono stato. Avrei dovuto esserci per accompagnare un amico appassionato del genere ma non ricordo per quale motivo non sono potuto andare con lui. L’ho vissuto però di riflesso chiaramente, sulla base dei racconti di questo mio amico che raccontava di averlo vissuto steso a terra ad ascoltare la musica. Diceva di aver assistito ad un concerto davvero stupefacente.

C.P.: Quanti dischi possiedi ora e quale cifra massima pensi di aver raggiunto?
E’ chiaro che ad un certo punto si fa una scrematura. Vuoi per eliminare cose che non interessano o che non si ascoltano più oppure semplicemente per recuperare spazio.
P.S.: La maggior parte dei vinili sono ancora qui, sono circa 800. Saranno stati oltre il migliaio   nel momento in cui ne ho posseduti di più. Certi nel tempo li ho venduti. La maggior parte dei  bootleg e vinili  particolari, li ho dati via non perché non ne ero interessato ma perché non volevo essere tanto  folle da correrci dietro a livello collezionistico. Dei Doors ero arrivato a possederne più di un centinaio….
L’altra particolarità di miei archivi musicali è che all’inizio degli anni ’80 ho iniziato ad appassionarmi e a collezionare registrazioni dal vivo di tantissimi artisti; principalmente di registrazioni amatoriali dal vivo, all’epoca in cassetta…

C.P.: …ecco, volevo arrivare proprio qui…
P.S.: …per me è stato l’inizio di una passione perchè dai concerti dal vivo hai la possibilità di sentire il vero valore di un artista.
In un lavoro da studio un musicista si esprime con capacità e tecnica  ma aiutato proprio dal fatto che si trova in studio; quello che ne esce è solitamente un prodotto sul quale si è lavorato in modo da  presentarlo al meglio. Durante un concerto dal vivo invece l’artista  è nudo….non può barare.
Quando conosci bene i lavori in studio di uno o più artisti, hai anche il piacere e la curiosità di approfondire il discorso ed entrare nel vivo conoscendoli anche nelle loro esibizioni live perché è allora che sono veri.

C.P.: E come ti sei avvicinato a questo mercato delle registrazioni su cassetta? Oggi si scarica, c’è internet, ci sono le mail ed è più facile rimanere in contatto con la gente e soprattutto i contatti avvengo in tempo reale. All’epoca negli anni ‘80 ci saranno state alcune riviste e fanzine che non erano come quelle che conosciamo oggi, fatte a colori in carta patinata e realizzate da una vera e propria redazione; quella volta venivano fatte da un appassionato nel tempo libero quando poteva e le copie erano realizzate con la fotocopiatrice. Come era possibile avvicinarsi a questi settori?
P.S.: Avevo iniziato tramite altri amici veneti collezionisti che avevano già questa passione. Non sono passato per fanzine o riviste. Tutto funzionava tramite contatti diretti  e passaparola. Ognuno condivideva i suoi contatti in modo da creare una rete. Penso di non aver mai telefonato a nessuno se non una volta sola. Ho sempre avuto una fitta corrispondenza, tutto viaggiava per posta ed i tempi erano lunghi.
Tra questi vari contatti con i quali mi sono scambiato quintali di materiale, c'era Giancarlo Passarella, credo parente del noto calciatore di quegli anni. Era un collezionista, specializzato sui Dire Straits e ne curava pure la fanzine Solid Rock. All’epoca ricercava proprio il concerto di Lubiana e con quella registrazione lì che gli ho inviato abbiamo iniziato a scambiarci un mucchio di materiale, qualcosa come  90 concerti live. Mi ricordo che mi arrivavano valanghe di pacchi con cassette
Da qui partiva la specializzazione per ogni singolo collezionista. Io ricercavo molto Blues, Crosby Still Nash & Young, Jefferson Airplane. Ho ancora tutte queste cassetta. Non ne ho mai gettata nemmeno una. Non le ascolto quasi mai e non ho il tempo di digitalizzarle, purtroppo la qualità decade con il tempo, molte saranno inascoltabili dopo tanti anni.
Registravo anche io però.  Alexis Korner a Udine nel ‘82, John Hammond,  Peter Green e altri personaggi Blues che son passati di qui dalle nostre parti, li ho registrati tutti. Poi ricercavo nastri di Guido Toffoletti e da lì ho conosciuto un sacco di collezionisti veneti. Era una rete molto fitta…

C.P.: Questi nastri di Toffoletti, li cercavi prima o dopo averlo conosciuto?
P.S.: E’ stato quasi subito e per caso. Ascoltavo la musica di Guido dalla fine degli anni ‘70. Lui è stato il padre del blues italiano, anche se il blues italiano io l’ho scoperto con il primo disco di Roberto Ciotti e non era facile al tempo reperire materiale di questo tipo. I rivenditori non lo trattavano. Alla sua uscita, ed eravamo nel 1978,  sentii un pezzo trasmesso di sera alla radio  (mamma Rai) e mi appassionai immediatamente; il disco di Ciotti era già poco distribuito in Italia, ed  a Trieste non sapevano nemmeno chi fosse.. L’ho reperito tramite un rivenditore milanese che ogni settimana passava a Trieste con il suo furgoncino a rifornire i pochi negozi locali di musica “seria”. E’ stato tramite la proprietaria di un piccolo  negozio in via Milano (qualcuno se la ricorderà sicuramente)  che ebbi il contatto e lui riuscì a procurarmelo dopo un mese… su ordinazione. Da lì, ho cercato un po’ di informazioni su svariati canali, anche su libri. Ricordo della pubblicazione in quel periodo del libro Il Blues in Italia .Se eri interessato pagavi tempo e denaro per le informazioni che volevi. Era una professione di fede perché volevi sapere, quindi cercavi le informazioni in qualsiasi modo.

C.P.: Suppongo ci sarà stato anche il rischio di farsi passar qualche bidonata nella ricerca delle informazioni. Bisognava stare attenti.
P.S.: Rispetto ad oggi c’erano tante baggianate che si raccontavano nel mondo del Rock e del Blues. Tantissime leggende metropolitane che giravano anche sui giornali, quindi sui mezzi di informazione proprio. Le riviste dell’epoca che leggevo erano Gong, Muzak,, talvolta Mucchio Selvaggio; ricordo di un articolo apparso su una delle prime due; quale di preciso non so, ma ricordo bene l’argomento trattato: Fascimo e maschilismo nei testi di Lucio Battisti. Ed era anche un articolo serio nel  quale venivano fatte delle serie  considerazioni ed analisi dei testi e delle parole. Alla fine dell’analisi, emergeva una considerazione che mi son sempre chiesto “Sarà vera, Non lo sarà?”, e la ricordo perché mi aveva fatto sorridere quando la lessi.  Si sosteneva che nelle canzoni di Battisti l’uso  della parola “muoio” o “morire” che tra l’altro appariva molto spesso, fosse un modo “pulito” per parlare di  eiaculazioni. Questa era l’interpretazione che veniva attribuita.
Girava anche la voce all’interno della sinistra che Battisti fosse finanziatore di Ordine Nuovo. Non ho mai capito se era vero o meno.  Insomma, di informazioni sulla carta stampata ne viaggiavano molte, il difficile era capire se erano bidonate o meno.  Ad ogni modo anche oggi bisogna stare attenti; internet non è fatto da santi; in rete viaggiano informazioni infinite in tutti i settori e spesso è molto difficile riconoscere quelle fasulle.

C.P.: Quindi collezionismo su cassetta. Materiale rude, grezzo, artigianale…
P.S.: …e illegale, o meglio, come piace definirlo da me, amatoriale. Amatoriale perché il mercato dei bootlegs quando è nato, agli inizi si parlava di vinile, era composto da gente sì organizzata, ma prima di tutto  mossa dal desiderio di condividere tra gli appassionati quello che veniva registrato dal vivo ma anche prove o materiale registrato in studio, scartato o mai pubblicato. Ovvio che costavano quei dischi illegali ma costavano molto meno dei dischi ufficiali. Quindi non so quanti soldi i loro “produttori” potevano ricavarne  realmente. Era una questione di amore verso gli artisti che si è poi trasformata in un giro d’affari. Un business colossale. Alla fine degli anni ‘80 il mercato illegale su vinile era decisamente importante ed oltre a materiale dal vivo o materiale uscito illegalmente dalle sale di incisione, si era arrivati anche a riprodurre perfettamente Lp ufficiali non più in circolazione e ricercati dai collezionisti… 

C.P.: Una volta mi spiegavi che esistevano addirittura delle etichette, dedite o ad un genere o ad un band, che mettano su vinile queste registrazioni e una cosa che mi aveva colpito l’avevo trovata proprio su di un bootleg che mi avevi passato tu, se non sbaglio era quello dei Doors al Matrix. Alla fine dell’ascolto se attendi, senti la registrazione che precedentemente era incisa sul nastro usato per  quel vinile. E queste due cose mi avevano davvero incuriosito.
Un bootleg dei Doors pubblicato dalla Tangie Town Records
P.S.: Sicuramente queste produzioni erano artigianali. Una delle prime etichette, una delle più famose, era la TAKRL (The Amazing Korniphone Record Label) e poi c’era anche la Swingin’ Pig Records, ed in seguito la Tangie Town Records specializzata nei Doors.  Facevano stampare  i vinili nelle stamperie europee, molte anche italiane, che stampavano  i dischi ufficiali. Non è che i realizzatori dei bootlegs possedevano macchine diverse. Andavano proprio dagli stampatori, dai sottoscalisti ai quali le major davano da fare il lavoro più povero, stampare gli Lp. Come acquistare maglioni da chi ha in casa una macchina per  maglieria e lavora  per conto di qualche firma importante.
Il fatto di come siano nate le registrazioni dal vivo e di come sono state tramandate a scopo amatoriale, hanno fatto sì che il loro mercato sia esploso in modo pauroso perché la curiosità degli appassionati era tantissima. Certi bootlegs valgono una bella cifra. Altri invece non valgono follie.

C.P.: Motivo?
P.S.: Tanti sono stati ristampati, altri perché son falsi. Già il bootlegs è un falso…

C.P.: Spiega sta cosa che è interessante. Cosa vuol dire “son falsi”?
P.S.: Il bootleg già di suo potrebbe essere considerato un falso Lp in quanto non ufficiale. Però la prima edizione di un bootleg è il bootleg, altri invece venivano letteralmente rubati da altri. Ovvero altri clandestini duplicavano il bootleg. E speso con qualità più scarsa. Quindi sembrerà assurdo ma sul mercato trovi falsi bootleg, una copia, un falso del falso.

C.P.: Rimaniamo in ambito di bootlegs e parliamo di un titolo in particolare del quale mi avevi raccontato anni fa. I Rolling Stones che suonano con Muddy Waters.
(Paolo ride e quasi a stento riesce a parlare. Conoscendolo prevedevo questa sua reazione…compiaciuta!).
P.S.: E’ una cosa stranissima questo disco! Si tratta di Sweet Home Chicago,  uscito nel 1983 su etichetta Swingin’ Pig Records  registrato, come recitano le note di copertina, al Buddy Guy’s Checkerboard Lounge di Chicago ( locale di proprietà di Buddy Guy) il 22 novembre del 1981.  Nel periodo in cui fu pubblicato, ricevevo un sacco di cataloghi da commercianti di tutta Italia e così mi capitò di incrociarlo. Sul personaggio di Muddy Waters ero molto scafato ma saper che c’era in giro qualcosa di lui assieme ai Rolling Stones, mi sorprese; decisi di prenderlo. Ad ascoltarlo non riuscivo a capire se era vero o se fosse un falso. Jagger e Waters, nella registrazione, non cantavano mai assieme e i loro volumi erano diversi. Molto strano. Dopo due mesi circa, ricevetti la rivista “Il Blues”, storica rivista che continuo a ricevere ininterrottamente dal primo numero uscito del 1982. Proprio in quel numero c’era un articolo di GuidoToffoletti che trattava di questo disco. Lo stesso Toffoletti diceva “…mi è capitato questo disco qui. Non so se è vero oppure no, ma compratelo perché è una follia!”. Detto questo da Toffoletti, che con Keith Richards aveva dei solidi contatti, i miei dubbi ed anche l’interesse verso questo disco erano cresciuti ulteriormente.  Il disco venne così’ archiviato e mi dimenticai della sua storia fino a quando,  ai tempi di internet, cercando altre cose, ho trovano uno spezzone video di quella serata;  non ci credevo ! Ovviamente scaricai subito quello spezzone. Successivamente trovai anche un collezionista che possedeva il filmato integrale che tra l’altro oggi è acquistabile senza troppe difficoltà. Oggi i filmati amatoriali di concerti  dal vivo stanno circolando nuovamente moltissimo. Ne trovi tanti. Mi sono stupito perché li trovi on line anche su Amazon ad esempio o sul sito della Fnac Francese che mette in lista moltissimi titoli bootlegs. Non ho capito come si sia nuovamente sdoganato tutto questo mercato. In maniera molto ufficiale tra l’altro, rispetto un tempo dove facevi le cose in maniera un po’ nascosta fino alla fine degli anni ’80. Addirittura c’era un bootlegs dei Doors, che forse ho passato a te…

C.P.: Stai parlando di Rock Is Dead?...
P.S.: No, no, sto parlando proprio di un concerto pubblicato da un’etichetta italiana molto nota. Forse era La Voce del Padrone. Questa era un’uscita ufficiale messa in listino addirittura da quella stessa etichetta.
In quel periodo di fine anni ‘80, una legge italiana aveva stabilito  che le registrazioni dal vivo di età superiore ai 20 anni erano libera da copyright, quindi ufficialmente uno qualsiasi poteva prendersi una registrazione di venti anni prima, in questo caso di fine anni ’60, e stamparla senza infrangere nessuna legge.

C.P.: Allora era questa la registrazione non autorizzata però ufficiale che avevi venduto ad un’asta; e come mi avevi raccontato ti eri messo lì a guardare la gente che si scannava per averlo.
P.S.: Sì, proprio quello! (e Paolo sorride) Purtroppo il tempo fa brutti scherzi e come ti dicevo non ricordo più il titolo e nemmeno l’etichetta.  Conservo ancora però una raccolta di più di 120 titoli live in cd  della Fabbri Editori che tra il 1993 ed il 1994, collana pubblicata sotto il titolo “I Miti del Rock”;  sono tutti cd di registrazioni dal vivo e tutti  i cd recano il bollino Siae… !


C.P.: Bootlegs però ufficiali. Una volta mi parlavi della fabbrica americana di biscotti della King Biscuits.
(nuovamente se la ride)

P.S.: Quelli non erano bootlegs ma vere e proprie registrazioni ufficiali destinate alla diffusione radiofonica. Iniziò tutto con la King Biscuits Flour Co. , fabbrica americana di biscotti che a partire dal 1941, a fini pubblicitari, sponsorizzava una trasmissione radio di 30 minuti chiamata King Biscuits Hour  dove musicisti blues venivano registrati  in studio e poi le copie su vinile venivano distribuite  alle stazioni radio americane su tutto il territorio americano.   A partire dal 1973 venne creata una trasmissione radio di un’ora denominata King Buiscuits Flower Hour ( flower in onore del flower power..) dove con uno studio mobile venivano registrati veri concerti live poi divulgati via vinile a più di 300 stazioni radio. Parliamo di Springsteen,  Stevie Ray Vaughan, Rolling Stones, Tom Petty…e qualcosa dovrei ancora averlo da qualche parte.
Per tantissimi anni la cosa è andata avanti così.  Da noi queste chicche arrivavano tramite rivenditori, oppure nella nostra zona ad Aviano tramite i militari della base americana.
Ora tutto il catalogo è stato acquistato dalla Wolfang’s Vault  e molte delle registrazioni sono  reperibili on line sul loro sito internet; è una vera miniera di registrazioni live. 

C.P.: Tornado a noi invece, alle registrazioni amatoriali, come sono cambiate le cose?
P.S.: Tutto è cambiato in modo esponenziale. Oggi attraverso una schiera di volenterosi “taper” riesci ad ascoltarti un concerto degli Stones di una settimana prima o anche di uno o due giorni prima a casa tua. Queste esibizioni vengono caricate su siti dedicati e li trovi senza troppe difficoltà. Con lo steso metodo,  gruppi di appassionati fanno circolare tra loro il materiale  dei loro archivi e tutto in maniera rapida ed  economica.
Io agli inizi andavo ai concerti con un registratore a cassette Philips, non il K7 che era piccolino, ma uno molto più decente e con il microfono stereo esterno, poi sono passato ad un walkman Aiwa con microfono semiprofessionale. Oggi è tutto cambiato, dai mini microfoni ai registratori digitali che contengono anche quattro ore di materiale. Poi editi tutto a casa. C’è gente che si è attrezzata molto bene con strumentazioni notevoli. Anche con microfoni che costano più dei registratori. Degli ingegneri sono riusciti addirittura ad inserire dei microfoni nelle montature degli occhiali. Trovi di tutto e con un risultato finale molto ma molto buono, una qualità talvolta stupefacente.

C.P.: Sia oggi, con le registrazioni digitali, che una volta quando si riversavano le registrazioni su vinile, oltre a tener conto della qualità del suono, si provvedeva anche alla divisione delle tracce e aggiustamento dei volumi quando possibile, si è sempre pensato anche all’estetica del lavoro finito, con belle copertine, in certi casi addirittura professionali.
P.S.: Assolutamente!

C.P.: Ti sei sempre occupato di audio, e video invece?
Ci sono anche bootleg video. Non solamente eseguiti da una telecamera ma addirittura da più posizioni. Ci sono persone che si mettono d’accordo e prendono biglietti per zone diverse nel luogo del concerto; riprendono e poi eseguono un montaggio audio e video in modo da fornire dei lavori davvero entusiasmanti.
P.S.: Ci sono davvero tantissimi video di ottima qualità. Un mio amico è appassionato di riprese video di questo tipo. Alcuni ne ho fatti pure io ma è difficile davvero. Ti devi sacrificare, non ti godi lo spettacolo e neppure l’artista. Se ti metti a filmare devi tenere d’occhio l’obbiettivo per la messa a fuoco e l’inquadratura. E’ diverso dall’audio per il quale regoli i volumi, sistemi il microfono  e puoi anche  abbandonare il tutto quasi senza tenerlo d’occhio; ti impegna molto meno del video. Mi piace anche godermi lo spettacolo. E poi un registratore è molto più facile da nascondere e la security di solito non ti intercetta. 

C.P.: Un bootleg, un LP che vorresti avere, che non sei mai riuscito a trovare o chissà per quale motivo hai dovuto rinunciare. Perché costava troppo oppure perché qualcun altro se l’era aggiudicato prima di te. Ad esempio Electric Ladyland di Hendrix. Ricordo che anni fa mi avevi raccontato di essere andato alla prima fiera del disco di Trieste perché cercavi la prima edizione di questo disco; quello apparso per poco tempo sul mercato nel 1968 e ritirato quasi immediatamente perché in copertina ritraeva delle donne nude, prima di venir sostituito con una copertina più sobria.
P.S.: Ce l’ho! Non proprio originale americano ma una seconda edizione inglese che pure quella è apparsa davvero poco sul mercato. Quasi identica comunque. Oggi non rifarei follie.
Rispondendo alla tua domanda ti posso dire che tutti i bootlegs ed Lp che desideravo li ho posseduti. Non me ne sono mai fatto sfuggire uno. Devo essere sincero; sento un po’ la  mancanza dei bootlegs che ho venduto, questo sì, ma sono errori di gioventù. Non sono un collezionista, forse è meglio definirmi un appassionato, e se nel tempo per un motivo o l’altro ho dovuto vendere un  po’ di materiale, oggi sono un po’ pentito,  ma è la storia di molti. Quello che  possiedo ancora è  storia e ogni tanto li guardo, li amo. Magari non avranno un grande valore, alcuni sono regali  di amici o di artisti ed hanno quindi un valore affettivo e poi mi ricordano  un particolare periodo della mia vita.

C.P.: Il tuo rapporto con il collezionismo del materiale inerente di Patti Smith. Hai materiale che è stato adoperato per allestire delle mostre, delle vere esibizioni ufficiali, non serate organizzate dagli amici per gli amici appassionati della cantante. Mostre anche fuori dai confini italiani.
P.S.: Beh, ho raccolto un pò di cose,  ma  in questo caso più che collezionista direi che mi sento un estimatore. Ho molto materiale, diverse cose ufficiali come testi, stampe private, dischi autografati, pubblicazioni particolari. Anche qui ho avuto la possibilità grazie alla tecnologia, di entrare in un collezionismo avanzato di materiale live che mi è costato poco denaro ma sul quale ho dovuto investire molto tempo. E poi mi si sono aperte delle porte che mi hanno permesso di conoscere molta gente nuova.  E’ un’artista che mi affascina parecchio ed oltre al materiale ufficiale in questi ultimi 10 anni ho raccolto nel mio archivio audio  più di 700 registrazioni audio e video di materiale live  che coprono l’intera carriera dal 1971 ad oggi .


C.P.: E poi c’è il tuo rapporto con lei e la sua band. Una cosa che è andata ben oltre al solito rapporto da fan.
Firenze, 10-09-2009;Tom Verlaine, Paolo Scamperle e Patti Smith
Paolo e Lenny a Parigi (gennaio 2011)
P.S.: Diciamo che mi sono intrufolato nel sistema. Il rapporto con la Smith nella realtà non esiste. Lei vive in un suo mondo e non ti riconosce se non sei uno stretto collaboratore. Esserci conosciuti è stata una cosa che è svanita nel tempo, anche se ho avuto la possibilità di starci accanto parecchie volte. Insomma,  una cosa simpatica ed inusuale ma non voglio di più. e  non voglio trasformarlo in un’esaltazione da fan. Nella realtà  voglio dare  rispetto alla  persona. Il rapporto più stretto lo mantengo con  Lenny Kaye, (il suo chitarrista da sempre). Anche se c’è un oceano di mezzo, è un rapporto che prosegue dal  2008 e quando c’era  la possibilità di vederci lo abbiamo fatto e…. continuiamo a farlo. Come ti dicevo io cerco di mantenere un rapporto equilibrato,  rispettando la persona e l’artista.  Mi sono occupato di distribuire tra i collezionisti un po’ di copie firmate del cd  edito da Lenny e contenente la registrazione della prima esibizione dal vivo di Patti Smith con lui alla chitarra, registrazione che risale al 1971…  lo scorso anno a gennaio  ho organizzato un pranzo a Parigi con Lenny  in un locale storico (Le Procope); oltre a mia moglie ho invitato altri quattro amici da Inghilterra, Francia, Italia ed Olanda che conosco da anni e che seguono anche loro il gruppo da molto tempo. Quando ho inviato gli inviti  credevano si trattasse di uno scherzo !
L’ultima volta ho incontrato Lenny  a New York lo scorso dicembre. Pochi sanno che da 14 anni Patti Smith e la band celebrano gli ultimi giorni dell’anno con tre concerti il 29, 30 e 31 dicembre al Bowery Ballroom. Sono concerti per un pubblico ristretto di 400 persone, il 30 dicembre è il compleanno della Smith ed è immancabile la torta con le candeline sul palco. E poi gli spettacoli sono semplicemente strepitosi,; lei li dedica “to my people”, il suo pubblico. Più che spettacoli sono tre serate di vera festa.

Patti Smith festeggia il suo compleanno al Bowery Ballroom di New York (video di jamiemoroni)


Patti Smith al Bowery Ballroom di New York- mezzanotte del 31 dicembre 2011 (video di thehouseofdis)

 Lenny mi ha inviato  una mail di auguri per il mio compleanno (che cade il 31 dicembre) dicendomi che mi aveva visto sotto il palco la sera precedente e mi ha dato appuntamento a 1 gennaio in una chiesa sconsacrata ( St. Mark’s Church) dove da molti anni i migliori poeti alternativi assieme ad altri personaggi alimentano una maratona poetica che inizia il primo pomeriggio e prosegue fino a sera inoltrata. Ci sono i poeti “puri”, poeti che si esprimono con la danza, poeti cantautori. Ne avevo sentito parlare molto nel passato  e mi aveva sempre affascinato l’idea di esserci ma non pensavo mi poteva impressionare così tanto.  Così ci ha invitato nella Backroom, ovvero la sacrestia, che loro adoperano come camerino. Il tutto in un’atmosfera tranquilla, come stare in un bar. Tra i vari personaggi che ho trovato lì dentro, Suzanne Vega, Steve Earle,  John Giorno vecchio poeta americano, uno dei pochi che sono rimasti, e amico di Allen Ginsberg.

John Giorno al Poetry Project New Years Marathon 2012 (video di clairedelune49)

Suzanne Vega al Poetry Project New Years Day Marathon 2012 (video di clairedelune49)

Lenny Kaye al Poetry Project New Years Marathon 2012 (video di Paolo Scamperle)

Patti Smith al Poetry Project New Years Marathon 2012 (video di Paolo Scamperle)


P.C.: Torniamo al materiale delle mostre dedicate a Patti Smith. Racconta dai.
P.S.: Spagna! Un amico Sardo che lavora saltuariamente in Spagna, aveva contattato il museo di Victoria Gasteiz nei Paesi Baschi per affiancare una mostra dedicata a Patti Smith e composta da fotografie e disegni., proponendo di fornire dischi e libri da esporre per completare  l’esposizione dell’artista. Il museo ha accettato la proposta ma solo per quanto riguardava i dischi. Così abbiamo imballato il materiale e lo abbiamo spedito. Poi siamo stati invitati ai tre giorni dedicati a questo evento ma purtroppo io non ho potuto pendervi parte. Il mio amico invece in quei giorni si trovava a Barcellona per lavoro e quindi ha potuto partecipare. Immagina, che ha trovato tutto spesato, vitto ed alloggio con il rammarico dell’organizzazione per la mia assenza. Stanza d’albergo vicina a quella di Patti Smith.   Sarei stato accolto e trattato come uno dell’entourage. Questo è stato il trattamento riservato al mio amico. La Smith e Steven Sebring, regista del film documentario Dream of Life, hanno richiesto la sua presenza durante le uscite a zonzo per i paesi vicini dato che parla lo spagnolo e poi in fondo faceva parte dell’entourage. Ha avuto quindi l’opportunità di instaurare un rapporto “professionale”  rapporto  molto diverso da quello che normalmente si instaura tra un artista e persone sconosciute. In questo caso, al quale non ho potuto prendere parte, sarebbe stato un immenso piacere per me poter passare un po’ di tempo con Patti Smith in maniera diversa, e discorrere magari di certi vinili esposti che  nemmeno lei sapeva esistessero.
Dopo qualche mese la mostra è stata spostata alle Canarie, ed anche lì avevamo l’invito…... Ovviamente  alla fine il nostro prezioso materiale ci è stato restituito.

C.P.: Gli Who cantavano “…i’ve got my Magic Bus…”, una volta mi avevi raccontato che avevi conosciuto un guidatore di Magic Bus.
(Parte la risata contagiosa di Paolo, perché l’argomento è talmente bizzarro e inaspettato per lui in questo incontro. Non è da tutti conoscere personaggi come questi, e anche qui Paolo confermerà il suo spirito rivelando un altro particolare prima di continuare).
P.S.: Guarda, non sapevo nemmeno che il Magic Bus passava qui vicino prima di conoscere sto tipo. Un tipo strano ma molto poetico, che tranquillamente senza vantarsi o chissà che altro mi disse “sì, guidavo i Magic Bus”. Mi disse che partiva sia da Londra che dall’Olanda e si fermava in India Se non sbaglio il percorso toccava anche le nostre terre. Mi son chiesto molte volte se esistesse davvero, questo Magic Bus, io non l’ho mai visto passare. E’ una di quelle cose che sembrano leggende metropolitane.  Mah chissà.

C.P.: Torniamo alla domanda originaria. Gli Who cantavano “…i’ve got my Magic Bus…”. il tuo Magic Bus? Un sogno che vorresti realizzare. Hai avuto tante esperienze, tante soddisfazioni. Per il collezionismo hai racimolato contatti in tutto il mondo, ma qualcosa che vorresti in particolare?
P.S.: Certe cose che mi sono accadute in questi ultimi anni, non avrei mai pensato potessero accadere, quindi mi sento molto soddisfatto. Non me le aspettato davvero. Mai avrei immaginato si potessero realizzare. Ad essere sincero un sogno ce l’avrei  ma sono sicuro che non si realizzerà mai ed è quello di riuscire a suonare come dico io  la mia chitarra elettrica.
A livello un po’ più poetico invece, e questo sogno è del tutto irrealizzabile, mi piacerebbe poter ancora passeggiare con il mio amico Guido Toffoletti. Discorrendo un po’ di blues e di vita.
 Non siamo riusciti a frequentarci tantissimo,  ci siamo per lo più sentiti telefonicamente e questo accadeva spesso. Era un personaggio strano ma io lo sentivo una persona vera, e lo dico con molto piacere perché per quelle volte che siamo riusciti a vederci, è stato davvero speciale. Avrei ancora tante cose da chiedergli.

Settembre 2009 Ntwk n°138.jpg
C.P.: Vedi, avrei voluto evitare il discorso di Toffoletti perché poteva sembra che questa intervista doveva essere incentrata sulla vostra amicizia, ma lo hai tirato in ballo tu stesso e a me fa molto piacere. E’ stata una cosa spontanea. Ne avevo già parlato nell’autunno del 2009 su Ntwk a proposito del decennale della scomparsa e in tale occasione oltre ad aver parlato con te, avevo contattato Mike Sponza, un musicista di Toffoletti e Giò Alajmo (giornalista veneto molto noto nell’ambito).
Per chiudere, rendendo omaggio a Guido allora, racconteresti qualcosa di lui? Che ne so, un aneddoto. A me viene in mente di quella volta che ti aveva invitato ad andare con lui a Monaco a vedere i Rolling Stones, in quanto era stato invitato dallo stesso Keith Richards, che Toffoletti conosceva bene…
Paolo e Guido Toffoletti a Trieste nel 1999
Keith Richards e Guido Toffoletti
P.S.: A me viene in mente, più che un aneddoto, una cosa molto forte tra me e lui, accaduta l’ultima volta che ci siamo visti, poco tempo prima che ci lasciasse per sempre. Era circa mezzanotte e stavamo passeggiando da soli sulla sabbia dell’Ippodromo di Montebello, dopo una sua esibizione ed una lauta pizza. Parlavamo dei suoi impegni musicali ed io ingenuamente mi lamentavo del mio impegno lavorativo che non mi lasciava tempo da dedicare alla musica. Si fece serio ed espresse tutta la sua invidia per me che avevo una vita regolare e che alla sera tornando a casa avevo una moglie ed una figlia che mi aspettavano. Rimasi ammutolito.  Non rinnegava la sua scelta di vita ma sentiva di aver rinunciato a qualcosa di importante ed a caro prezzo. Guido  era così, una persona di grande semplicità ed umanità, e questo lo rende indimenticabile. Questo suo lato lo scoprivi anche quando suonava. Ai suoi concerti accadeva pure che chiamasse amici o colleghi a suonare se erano presenti ed una sera di molti anni fa a Trieste mi chiamò a tradimento sul palco…  è lo spirito del blues, perché il blues è anche questo.

Per qualsiasi curiosità a riguardo degli argomenti trattati, potete contattare Paolo al seguente indirizzo:
paolo58@tin.it



mercoledì 15 febbraio 2012

IO ERO A PARIGI! 40° anniversario della scomparsa di Jim Morrison


di Cristiano Pellizzaro

www.myspace.com/latanadeigechi

I° - "Il pellegrinaggio al cimitero di Perè Lachaise"

E’ estate, fa caldo, ci si spoglia ma qui nelle capitale francese un po’ di brezza aiuta a non sentire troppo il sole anche se al termine del dì la pelle calda e arrossata che necessita di essere idratata la senti. Siamo ai primi di luglio, le giornate sono belle, si respira bene e bisognerebbe andare al mare. Questi giorni però dalle spiagge per me saranno lontani. L’unico specchio d’acqua che vedrò sarà quello della Senna.
Ancora non mi sono reso conto di dove sono. Forse perché oramai l’età sta contribuendo a far passare il tempo in fretta, forse perché tra una scocciatura e l’altra questo week end è arrivato senza rendermene conto, ma non realizzo quanto sarà speciale, memorabile e soprattutto invidiabile per chi non ci sarà.
Potevo mancare all quarantesimo anniversario della morte di Jim Morrison con Manzarek e Krieger che suoneranno assieme? Proprio no!
Mi sembra ieri, quella serata di luglio di dieci anni fa a Genova. Vidi Manzarek per la prima e unica volta. Tre anni prima Krieger e Densmore per una disfatta incredibile.
Nel 1981 alla musica non ci pensavo proprio e nel 1991 appena conoscevo i nomi dei quattro Doors. Era proprio nell’agosto di quell’anno, mentre me ne stavo seduto sull’autobus n. 34 in Largo Barriera, in attesa che partisse dal capolinea, vidi in una vetrina posteriore di un’edicola un numero di Rockerilla che in copertina riportava tra i nomi trattati quel mese proprio quello dei Doors. Ovviamente scesi e lo comprai. Probabilmente era stato il primo articolo che leggevo su di loro, e l’ultima copia che avevano disponibile.
Da qualche parte la conservo ancora.
Dunque viaggiavo per la musica per l’ennesima volta. Questa volta in Francia e per qualcosa che va bel oltre ad un semplice concerto.
Era da marzo che tenevo d’occhio le date del tour di Manzarek & Krieger. Per la terza volta da dieci anni a questa parte, da quando hanno ripreso a suonare assieme, si presentano al pubblico con un nome diverso. Nel 2002, con il nome The Doors 21th Century. Ma Densmore che non aveva voluto prendere parte al progetto, non va giù il fatto che adoperino il  mitico nome marchio di fabbrica. Cambiano nome in Riders on the Storm e lo mantengono per quattro anni. Ora sono semplicemente Ray Manzarek & Robby Krieger of the Doors. La data parigina è stata tra le ultime ad apparire nel calendario ufficiale del tour 2011 e per forza di cose il 3 luglio avrebbero dovuto suonare a Parigi. Nulla di più ghiotto quindi anche perché la settimana dopo, per la prima volta il duo farà tappa in Italia e passerà vicino a casa mia.
Non appena la data di Parigi è stata confermata, mi sono dato da fare per il biglietto d’ingresso che sarebbe stato messo in vendita su di un circuito esclusivamente francese. Poco male però perchè con un due mail sono riuscito a scovare il nome del sito, “et voilà!”, in una settimana il biglietto era a casa mia. Curioso da vedere però perché il tagliando che mi era stato spedito era stampato su di un foglio A4 in bianco e nero. Non si trattava di un voucher, riportava il mio nome e specificava che avrei dovuto presentarmi con un documento d’identità.
Ero gasato ogni giorno di più! Anche perché a  poco più di un mese dal concerto, il sito delle vendite riportava la scritta “sold out!”
Non appena messo piede fuori dall’albergo al mattino del mio arrivo, voglio andare a fare visita alla tomba al cimitero del Père Lachaise. Già così è la tomba più visitata del cimitero e l’itinerario parigino trovato sul sito di Rainer Moddemann consiglia di andarci molto presto se si vuole evitare la ressa dei visitatori. Per non parlare di domani, quando ci sarà l’anniversario.
Quindi metropolitana, linea blu e stazione omonima del campo sacro. In superficie noto un muraglione vecchio con un accesso e i capitelli di alcune tombe. Ci siamo quindi. Anche se non c’è folla che si dirige verso l’accesso, non è difficile notare chi sta andando lì proprio per visitare la tomba.
Un’edicola vende mappe del cimitero e magliette di Jim Morrison. Compro una piantina e inizio il mio pellegrinaggio. Entro, seguo le indicazioni sulla mappa ma soprattutto tengo d’occhio se scorso le indicazioni della retta via incise su qualche tomba. E così è. Ecco fatto, questa salita dovrebbe portare proprio lì. Ora sta tutto nel buttare l’occhio, scorgerla e scovare i pellegrini . Ma mi facilità di più notare le transenne che impediscono alla gente di starci sopra. In quarant’anni questa tomba è stata vittima di furti e deturpazione di ogni genere.  

VIDEO 
La tomba di Jim Morrison


Il famoso busto bianco che ritraeva Morrison, dono di un fan jugoslavo alla vigilia del decennale della morte, era andato a sostituire delle misere conchiglie e un piccolo cippo riportante il nome del defunto. Questo busto oltre ad essere stato dipinto da qualche fan che non capisco cosa aveva tanto da colorare, era stato prima mutilato del naso e poi rubato da qualcuno. Sono stati gli eredi Morrison, a spese loro a fornire quell’orribile blocco di granito con targa di bronzo che oggi tutti abbiamo visto. La gestione del cimitero nel corso degli anni ha dovuto adottare diverse misure di sicurezza per evitare bivacchi anche di giornate intere, spazzatura lasciata in ogni luogo nei pressi della tomba e oggetti portati in dono che ammassati sembravano una discarica. Due telecamere attive giorno e notte, di cui una installata in uno dei faretti del lampioncino a pochi metri dalla tomba, sono collegate con l’ufficio del custode.
Tutto sommato non mi sembra tanto difficile da raggiungere questa tomba. Dunque ci sono, sono  giunto alla meta.  Già un po’ di persone stanno ad ammirarla. Addirittura i viaggi organizzati includono questo sepolcro nella visita al campo sacro. Le comitive giungono sino in prossimità, si fermano e le guide iniziano a spiegare la storia della “rockstar Jim Morrison” e  citano Jimi Hendrix e Janis Joplin ovviamente. Poi, finita la spiegazione raggiungono la lapide e ammirano…per alcuni si tratta addirittura di un emerito sconosciuto. Ma tanto il tour comprende anche questo; è compreso nel prezzo. Ma chi sarà mai?...boh?! I loro pensieri li intuisci guardando le loro facce.
Mi fermo un po’, osservo, penso a svariate cose, provo una sensazione del tutto normale come stare ad osservare un qualsiasi monumento.
La gente continua ad arrivare, e fa come me. Chi si ferma più tempo, chi due foto e scappa via. Sono quasi impassibile davanti a quel blocco di pietra freddo e inguardabile.
Mi chiedo per quale motivo gli eredi del patrimonio Morrison non spediscano quattro soldi a qualcuno in Francia per prendersi cura di questa tomba. Con tutti i soldi che sto morto, vero o falso che sia, gli fa guadagnare. E non saranno neppure pochi soldini. E pensare che il padre ha sempre sostenuto che l’affermazione del figlio a riguardo della morte della sua famiglia, era stata fatta solamente per non coinvolgerli in quello che sarebbe stato il tifone del successo Doors. Ma il giovane James era un tipo indomabile. Nessuno poteva e doveva comandarlo e ricevere il diniego e la disapprovazione dal padre ufficiale della marina statunitense, probabilmente ufficiale anche in ambito familiare, per quelle che erano le sue ambizioni artistico/cinematografico/musicali, era una cosa intollerabile per questo giovane ragazzo con un carattere simile che viveva negli stati uniti degli anni ’60.
Dunque oggi la tomba fa schifo. E’ misera e se confrontata con altre di nomi noti sepolti al Père Lachaise qualche secolo prima, è davvero deprimente.
A dire il vero non appena mi sono intrufolato tra le tombe, dopo aver intuito dove si trovava il Santo Sepolcro, un certo effetto mi ha fatto; sarà stato per suggestione, sarà stato perché finalmente mi ritrovavo davanti quella meta tanto rincorsa per diversi anni durante l’adolescenza e poi voluta raggiungere solamente in questa occasione dell’anniversario. Fatto sta che ora a ripensarci mi sembra di trovarmi davanti ad un monumento che fino al giorno prima lo avevi immaginato,visto alla tv oppure sui libri. C’è un’atmosfera strana. Non di quelle come se ci fosse una “certa presenza”, ma proprio di come se…non mi vengono le parole giuste.
La gente presente parla, ma lo fa sottovoce come è giusto che sia in un cimitero. Mi fermo un po’, scatto qualche foto, guardo le persone attorno a me mi immagino come sarà stato questo luogo nei vari anniversari passati, sia della nascita che della morte e mi tornano in mente le immagini finali a colori del filmato The Doors in Europe, con dei Doors ancora giovani al 3 luglio del 1981, in occasione del decennale quando arrivarono sulla tomba e incontrarono i fans. Domani la scena si ripeterà. Ci saranno solamente Robby e Ray, e non mi capiterà mai più un’occasione simile.
Non trovo motivo di rimanere ancora qui; faccio un giro nel cimitero. Voglio vedere anche le tombe di altri personaggi illustri. Lo sto girando in lungo e in largo, non ho difficoltà ad orientarmi e a trovare gli altri personaggi che mi interessano e non mi sembra di metterci troppo tempo. Trovo Oscar Wilde e mi chiedo per quale motivo il luogo del suo eterno riposo sia pieno di scritte che la lordano e nessuna protezione come la tomba di Morrison; trovo Rossini, Marie Trintignant e Modigliani. Non trovo la lapide in memoria di Maria Callas, ma trovo Edith Piaf e assisto ad un gruppo di appassionati che le dedicano una loro versione di Le vie en rose, conclusa con una clamorosa stonatura degna di fuga di gatti randagi. Povera Piaf.
Mi metto alla ricerca di Chopin. Lo trovo ma non riesco a vedere Petrucciani nonostante sia vicino al pianista polacco; pazienza.
E’ tardi, scendo verso l’entrata e ritorno per un passaggio veloce nuovamente sulla tomba di Morrison. Qualcuno mi ferma per chiedermi se forse so dove si trovi la meta del rock.
Mentre vado verso l’uscita tengo d’occhio i personaggi che incrocio sui viottoli e diretti in direzione opposta alla mia. Quasi tutti vanno proprio lì. E io ci tornerò domani.
La prossima tappa dopo una birra e una crèpe consumate fuori da un bar davanti l’accesso alla metrò, sarà Rue de Beautreillis 17, luogo dell’ufficiale decesso in vasca da bagno.
Metrò linea viola e si scende a piazza della Bastiglia. Quattro passi ed eccoci arrivati dopo aver passato davanti a locali, rivendite vini e alimentari frequentati da Morrison e segnalati sulla guida parigina di Rainer. Sul portone, un cartello scritto in francese e inglese avverte i possibili curiosi che quella casa è proprietà privata, quindi l’accesso non è permesso. Tutto normale per vedere un avviso così affisso sulla porta di un condominio in centro città. Ma un motivo in più questa volta ci sta tutto. Ovviamente i curiosi e fanatici del rock qui davanti ne verranno a migliaia ogni anno, e questa tappa è addirittura inclusa nei tour cittadini in bici organizzati per piccole comitive di turisti e che tanto vanno di moda oggi nella grandi città; passano di qui e si fermano su indicazione della guida che spiega il motivo della fermata davanti ad un portone anonimo con un numero sfigato in una stretta e poco soleggiata via a senso unico che sbocca nei pressi della Senna.

Qui però inizio ad a capire un po’ il significato di questo anniversario. Poco prima dell’arrivo di una comitiva di turisti-ciclisti, giunge una coppia di mezza età. L’uomo indossa una maglia nera con alcune immagini di Jim Morrison stampate sia davanti che sul retro. Si fa immortalare innanzi al portone dopo aver scattato alcune panoramiche del palazzo sulla via.
Ma quanto può aver significato indossare un indumento con la faccia o lo stemma di una band? Io ancora lo faccio ma il significato è diverso perché oggidì indosso le maglie dei concerti che sono andato a vedere. Ne possiedo moltissime che posso usare e altrettante sono messe in archivio sotto naftalina perché troppo vecchie e troppo logorate dal tempo e dai troppo lavaggi; sbiadite, sgualcite, consumata la stoffa che quasi ci vedi oltre come il tessuto di un fazzoletto comperato sulle bancarelle al mercatino per quattro spiccioli che dopo averci soffiato una volta lo getti. Quindi mi sono scordato di cosa vuol dire indossare un indumento di questo tipo, come uno indossa la maglia della sua squadra preferita. L’indumento significa far sapere agli altri la propria appartenenza. Questo significato mi invadeva il cuore e il sangue a quindici anni quando la prima maglietta che mi presi era proprio una di Jim Morrison. La possiedo ancora. E’ addirittura bucata dai troppi lavaggi. L’ultima volta che l’ho indossata è stato il 3 luglio del 2009 al concerto dei Jethro Tull. Tutte le maglie dei Doors che possiedo sono troppo vecchie e sbiadite per indossarle ancora. Quindi ho perso la via di quella mia ricerca, di quella voglia di appartenenza ad un gruppo. Ma qualcuno ben più vecchio di me non si da per vinto e ha ragione. E il giorno dopo ne avrò la riprova.
La giornata vola via, vado di corsa a vedere Notre Dame e passo sotto la torre Eiffel. Percorro il prato che si estende verso la città e poi risalgo l’altro versante oltre la Senna. Sul ponte osservo i giocatori d’azzardo con il gioco delle tre carte. Cercano di trovare il pollo di turno aiutati da altri complici che a puntante di 50,100 o più euro fanno finta di interessarsi al gioco per invogliare i passanti a farsi fregare. Mi fermo, osservo e dopo una o due manches mi offrono di giocare. Dico di no e al secondo invito me ne vado per evitare di farli insistere. Hanno un palo che per loro tiene d’occhio l’arrivo della polizia e in tal caso con un colpo gettano a terra il tavolo da gioco composto da alcuni cartoni e appoggiandosi al parapetto del ponte fanno finta di chiacchierare.
Inizia a fare tardi e ho fame. Vado quindi a Montmartre. Sulla collina c’è la chiesa del Sacre Coeur. Per arrivarci senza fatica devo prendere la funicolare. Prima di salirci, un ragazzo che aveva chiaramente capito io fossi un turista straniero, mi avvicina e mi propone della droga. Dall’alto della collina il panorama è davvero bello. C’è il tramonto e ci sono i parigini che s’incontrano per consumare una bottiglia di vino stando seduti sulle aiuole. Stessa cosa vista sotto la torre Eiffel e negli altri parchi. Probabilmente è una loro piacevole usanza per ritrovarsi assieme. Dietro alla chiesa la piazzetta del rione; cerco un localino tranquillo con tavoli all’aperto per cenare. Vicino a me quattro ragazzi spagnoli hanno da poco finito di mangiare. Mi chiedono di potergli scattare una foto. Pagano e se ne vanno.
In questi momenti di relax perdi la cognizione del tempo e nonostante non sia troppo tardi, finita la cena decido di tornare in albergo. Scendo dunque per il colle di Montmartre mangiando una crépe e passando per il quartiere di Pigalle.
Giunto all’hotel voglio però andare a vedere l’entrata del Bataclan. Purtroppo nulla è ancora pronto per l’evento della sera successiva. Al momento è in corso una serata musicale anni ’80-’90.
Nonostante i ricordi di quegli anni tornino sempre in mente molto volentieri, domani sera sarà di certo meglio. Quindi vado a dormire.



II° - "Get together one more time"
Le clebrazioni al cimitero

Domenica 3 luglio. Ci siamo, oggi sono quarant’anni che Jim Morrison ha terminato il suo cammino terreno. Devo fare in fretta, devo andare al cimitero.
Doccia e colazione con pochi liquidi per evitare che nel momento propizio la vescica tiri scherzi; in questi momenti, quando non deve, sa essere un’acerrima nemica che non perdona.
Prima di dirigermi verso il Pere Laschaise passo nuovamente davanti al Bataclan situato a due passi dall’albergo. C’è un furgone bianco fermo davanti all’entrata e degli addetti stanno scaricando l’attrezzatura. Su di una cassa vedo la scritta Tom Vitorino, manager dei Doors. Vi avvicino alla porta e guardo dentro. Vedo solo addetti ai lavori.
Prendo una bottiglia d’acqua, una confezione di biscotti e via in metropolitana.
La prossima fermata è la mia, scendo e torno in superficie. Il numero di persone che camminano verso l’entrata del cimitero è decisamente superiore a quella del giorno prima. Accelero il passo. Entro dall’entrata principale e rifaccio la strada del giorno prima. La ricordo senza esitare un attimo.
Saranno state le 9.30 di mattino se non ricordo male. Sono un po’ tardi rispetto a quanto avevo preventivato. Sul vialetto in prossimità di un accesso secondario, a forse 100 metri dalla tomba, sento dietro di me l’avvicinarsi di alcuni automezzi. Il rumore dei pneumatici sul selciato consumato è inconfondibile. Mi volto e in lontananza vedo una Twingo bianca del servizio di sicurezza del cimitero che avanza lentamente con le quattro frecce accese. Dietro, un furgone grigio e uno nero. Quello grigio ha i vetri oscurati. Indovina un po’ chi potrebbe stare seduto lì dentro la domenica mattina del 3 luglio 2011? Accelero ulteriormente il passo e mentre cammino veloce ogni tanto giro la testa per vedere quanto si sono avvicinati. Mi si affiancano ma dentro chiaramente non vedo nessuno. Mi sorpassano e inizio a correre.
Oramai sono arrivato alla salita e non manca molto alla meta. La carovana procede dritta e non da segno di fermarsi. O non sono loro, ma lo dubito, oppure si fermeranno in un luogo più comodo per parcheggiare gli automezzi.
Arrivo allora sulla tomba, di gente non è che ce ne sia molta e la situazione è vivibile. Rispetto al giorno prima ci sono alcune guardie che tengono d’occhio gli eventuali esagitati. Dove potrei mettermi? Chiaramente decido di appostarmi sulla transenna davanti alla tomba. Questo sarà il mio posto. Quando arriveranno me li godrò da qui. Ma quando arriveranno? Non sono sicuro fossero loro nei furgoni. Ad ogni modo ho messo in programma di stare qui anche tutto il dì. Non ci sarà scampo.
Forse due minuti saranno trascorsi da quando son giunto io che d’improvviso la gente tace. Quel bisbigliare che prima riempiva il mattino caldo, ora lascia spazio soltanto al rumore di chi muoverà i piedi per terra per camminare. Tutti girano la testa. Un gorillone a capo della comitiva chiede di fare attenzione e fare spazio. Eccoli! Manzarek e Krieger! Li intravedo tra gli uomini del servizio di sicurezza. Faccio partire la registrazione del filmato dalla fotocamera. Il servizio di sicurezza si schiera tra me e le transenne, formando un corridoio per i due Doors che mi passano vicino. Un brivido mi corre su per la schiena. Non ci credo, sono qui in questo momento storico che non si ripeterà mai più! Siamo in pochi per ora e io sono qui, così vicino a questi due che la storia l’hanno scritta, l’hanno vissuta e l’hanno vista cambiare. Se solamente lo volessi, potrei toccarli senza nemmeno stendere del tutto il braccio. Siamo talmente tanto vicini che li sento respirare tra il silenzio della gente. Sento il profumo del loro dopo barba. E non può essere che il loro perché non appena passano, quel profumo non lo sento più. La mia scelta di mettermi davanti la tomba, appoggiato alle transenne si dimostra essere stata assai infelice. Prima ci pensano i bodyguard, poi i vari fotografi e infine i soliti che tra una spinta e l’altra cercano di guadagnare i primi posti. Se solamente avessi deciso di mettermi a lato, dove il giorno prima due ragazze stavo sedute in adorazione, me la sarei goduta senza l’intralcio di nessuno. E da li oltre ad aver la visuale libera, Krieger stringeva mani e regalava bastoncini d’incenso. Ma dove sono vedo lo stesso molto bene. Tra i vari presenti riconosco Dave Brock, il cantante e dalle foto che scatterò vedo che in quel momento c’erano Tom Vitorino (manager), Phil Chen (il bassista) e gli altri personaggi dello staff che poi si vedranno sul palco la sera.
La visita alla tomba dura in totale meno di dieci minuti. Passate le transenne stazioneranno li attorno per porre alcuni bastoncini di incenso e farsi scattare alcune foto.
La loro visita verrà filmata e proiettata la sera durante l’esecuzione del concerto.
Proprio davanti a me, un negro spilungone con treccine rasta di quelle fine mi rende a momenti difficile poter vedere; la sera, assieme ad un altro della security, sarà uno dei protagonisti sul palco infuocato del Bataclan.
Tutto avviene nel più totale silenzio. Si sentono solamente gli scatti delle macchine fotografiche e i bisbigli della gente che commenta. Le voci dei vari saluti “Hey, Ray…”, “Hi, Robby” di quando hanno fatto la loro comparsa i due, ora sono sparite del tutto.
Ray si siede sulla tomba accanto a quella di Morrison e prepara gli incensi mentre Robby sembra molto più sciolto e socievole. Sembra quasi impossibile ma la gente ora è aumentata in numero esponenziale. La calca è notevole.

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Ray Manzarek e Robby Krieger sulla tomba di Jim Morrison, 03/07/2011 (a video by testerpen) 


La loro visita è quasi finita. Dopo aver acceso gli incensi e averli posti sul blocco freddo di granito, guardano la gente sorridendo e alzando le braccia tenendo le dita a “V” mettendosi in posa. Parte un applauso e qualche grido. Mi accorgo che non è partita la registrazione del filmato e tra un imprecazione e l’altra velocemente cambio impostazione della fotocamera e scatto una manciata di istantanee. Pochi scatti per il pubblico, e i due salutano abbandonando la scena tra gli applausi. Passano tra le due tombe dietro, per arrivare sul selciato e dirigersi verso le macchine. Non me li voglio perdere, quindi corro, salto oltre a delle lapidi, faccio dribbling tra altri spettatori e anticipo il piccolo corteo. Mi posiziono davanti a loro mentre stanno salendo. Il filmatino questa volta parte. Li seguirò fino alla loro partenza. I bodyguard non hanno molto da fare. La gente è tranquilla e composta. Qualcuno si posiziona d’improvviso davanti ai due per cercare di ottenere una stretta di mano. Qualcun altro si lascia andare in ringraziamenti del tipo “thank you for the Doors!”, oppure “thank you Ray…”.
Saliti sul furgoncino, solamente Robby darà soddisfazione ai fan del cimitero che riusciranno a rubare un paio di autografi. Ray snobberà tutti facendo finta di non vedere.
Questione di carattere? Vita da star? Essere snob? Tutto sommato hanno pure i loro anni. Sono stanchi di avere la gente che gli alita sul collo per foto ricordo e autografi. E poi se si fossero messi ad accontentare tutti non se ne sarebbero più andati via e per il resto della giornata, per quanto lunga ancora fosse, li attendevano il suond check e sicuramente un incontro con i giornalisti. Quindi c’è tensione. Questa non è soltanto la loro prima data europea ma il concerto dell’anniversario. Quell’anniversario che non si ripeterà mai più. Quell’anniversario che per la prima volta ne vede due di loro assieme. E dovranno fare bella figura. Sembrerà assurdo dirlo ma sono obbligati a non sfigurare. Questo concerto mai c’è stato e mai più ci sarà!
I pulmini partono e la gente li saluta. Non credo ancora a dove sono e a cosa ho preso parte. Ci sono persone di tutte le età e da diverse parti del mondo qui oggi e stasera saremo ancora di più.

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Ray Manzarek e Robby Krieger al cimitero di Perè Lachaise 03/07/2011

Ray Manzarek e Robby Krieger-Parigi, Perè Lachaise 03/07/2011 (a video by testerpen) (maglia gialla e occhiali da sole: a 3’14” circa appaio fuori del finestrino a fianco di Manzarek!)
 
Le vetture scompaiono presto nella discesa del viottolo sotto l’ombra degli alberi. A guardarmi intorno mi sembra di stare in mezzo ad una piazzetta di gente cotta in testa dal sole. Tutti a seguire con lo sguardo le vetture e a salutarli. Chi parla, chi guarda le foto scattare oppure i filmati, ma tutti abbiamo lo stesso sguardo da fessi cazzoni rimbambiti come se avessimo ricevuto un possente colpo in testa con una mazza. Increduli di quanto vissuto,  questo è un altro tassello del puzzle che si compone; sto iniziando a capire cosa vuol dire “credere”. Sto iniziando a capire il senso di questo evento.

Chi prima e chi dopo, dopo esserci ripresi, ritorniamo da Jimmy. La gente è notevolmente aumentata, Molti sono arrivati in questo momento e non credono al fatto che i Doors siano appena stati li e loro se li sono persi. Davvero numerosi adesso gli addetti al servizio di sicurezza del cimitero per garantire non solo l’integrità della tomba di Morrison, ma anche per far sì che nessun altra divenga luogo di bivacco o indecorosamente adoperata come palco fotografico.
Attorno alla tomba c’è un continuo via vai di gente di tutte le età. Siamo immersi in un mare di magliette doorsiane di tutti i tipi. l’impressione di stare ad un ritrovo di amici, ad una rimpatriata.
Prendo posto nuovamente su di una transenna. Dietro a me un ragazzo sottovoce canta People are Strange e End of the night. La gente è sempre più numerosa. Tra tutti i volti vedo la coppia di mezza età che il giorno prima avevo visto in Rue de Beautreillis 17. Io li guardo, loro mi riconoscono; il tipo porta la stessa maglietta. Non ci salutiamo ma gli sguardi che facciamo incrociare sono dei chiari messaggi amichevoli.
Un giornalista francese gira nei paraggi della tomba e raccoglie informazioni e pareri della gente. Ruba con l’occhio e riporta appunti sul suo taccuino. Sta vicino a me, si volta, mi vede e osserva la mia maglietta gialla con la scritta Australia. Abbassa lo sguardo e riporta qualcosa tra i suoi appunti.
Passerò alcune ore al cimitero; me ne andrò verso le 12 circa per proseguire verso altre tappe.
Il giornalista francese, che parla un buon italiano, raccoglie alcune informazioni da un gruppo di ragazzi di Treviso. Ascolto la loro conversazione. Vannjijoe parla per gli altri e finita la breve intervista, il giornalista stesso ammette d’essere ignorante dell’argomenti Doors; è presente sulla tomba solamente per richiesta della redazione per raccoglie pareri, testimonianze e capire da dove arriva la gente, e accennando a me con la penna dice “…ad esempio Australia...”.

I trevigiani sono in otto e attirano l’attenzione in quanto hanno tutti la stessa maglietta. Si sono regalati un week end a Parigi proprio per questo evento e uno di loro ha deciso di fare a tutti gli altri in bel regalo: una maglia personalizzata proprio per questo evento. Erano una vera squadra. Diverse persone chiedevano loro di poterli fotografare. Li invidio; loro sono tanti, tutti con la stessa passione e sono venuti fin qui per questo evento, mentre io giro il mondo in solitaria.
Scambio due parole con loro. Ci presentiamo e facciamo conoscenza sul vialetto dietro al santo sepolcro. Oltre a Vannijoe c’è Max, batterista degli OJM e proprietario della GoDown Records e Fabietto cantante dei Shaman’s Blues, una Doors cover band della quale ho già sentito parlare ma non ricordo bene in quale circostanza.
Sto quasi per lasciare il cimitero mentre loro si concedono una pausa per andare a bere qualcosa. All’invito degli altri Fabio declina e dice “no, non vengo. E’ troppo bello qui”. E in effetti aveva ragione. Si era venuta a creare un’atmosfera particolare. Peccato che io abbia scelto di andare a fare un giro verso altri luoghi. Nel primo pomeriggio la gente cantava proprio lì attorno. Alcuni filmati postati su youtube lo testimoniano e per quanto siano solamente filmati, l’energia si riesce a coglierla comunque.

VIDEO
Parigi, 03/07/2011- canti e danze al cimitero di Perè Lachaise (a video by DitaDoll79) 
Parigi, 03/07/2011-lettura di poesie al cimitero di Perè Lachaise (a video by mhjmmh) 
Parigi, 03/07/2011-canti al cimtero di Perè Lachiase (a video by mystery2202) 
Parigi, 03/7/2011-canti al cimitero di Perè Lachaise (a video by anitalanemonik) 
Parigi, 03/07/2011-canti al cimitero di Perè Lachaise (a video by mhjmmh) 
Come dicevo, avevo deciso di fare una giro veloce per vedere altri posti dell’itinerario di Rainer Moddemann, quindi il luogo dove una volta sorgeva il Circus, ovvero un malfamato locale frequentato da Morrison e dove si dice possa essere morto effettivamente. L’albergo dove morì Oscar Wilde e dove Jim e Pamela avevano soggiornato per un breve periodo in un alloggio al primo piano; e grazie al cielo che era il primo piano perché sembra che proprio qui, durante una lite tra i due, Jim sia volato giù da una finestra per finire sopra il cofano di un auto. Rialzatosi andò al bar a bere come nulla fosse accaduto.
Quindi altre tappe storiche, ma il tempo è contato; voglio essere tra i primi ad entrare nel teatro.
Alle 16.30 torno indietro per lasciare lo zaino in albergo e già noto un po’ di movimento all’entrata del Bataclan. Saranno solo in sei ma il fatto che già ci sia qualcuno è davvero una situazione “pericolosa”. Non per nulla l’albergo l’ho cercato nelle vicinanze della sala da concerto, così vado, lascio lo zaino e dopo un quarto d’ora sono nuovamente davanti all’entrata. Ora ci sono venti persone. Va bene lo stesso perchè sarò tra i primi.



III° - "Ladies and gentlemen, from Los Angeles California..."
Cronaca completa del concerto al Bataclan
 
Ora bisogna solo avere pazienza. Fino alle 19 non apriranno. L’attesa sarà lunga ma passerà.
Piano piano la fila dietro a me aumenta, si forma un cordone umano che sarà un vero peccato non poter osservare da fuori per vedere fino a dove si prolunga. Al loro arrivo gli addetti alla sicurezza sistemano delle transenne in modo da rendere la fila più ordinata e l’atmosfera inizia a fasi palpabile.
Tra le persone che vedo passare per mettersi in coda e che si fermano ad osservare la situazione, scorgo il gruppo di Treviso e i ragazzi spagnoli della sera prima a Montmartre.
Il marciapiede è affollato e colorato dell’immenso stuolo di maglie doorsiane che lo invade. Immagino che vista da fuori della coda d’entrata, questa situazione sia da film americano; tutta questa gente ordinatamente in fila fin sotto la porta della sala da concerto che riporta sul cartellone l’evento della serata composto con lettere incastonate sull’insegna luminosa.
Peccato che non ho indossato nessuna della mie maglie. Gente di tutte le età, da un ragazzino di otto anni a signori di sessanta; ci sono varietà di magliette per tutti i gusti e di tutti i tipi. Maglie mai viste fino ad oggi. Pochissime che si ripetono. Alcune le ho già viste, altre sono simili tra loro ma non identiche. Solo io ne possiedo otto se ricordo bene. Tutte diverse e soprattutto nessuna delle mie la rivedo tra quelle che ci sono oggi. Se solamente una di quelle l’avessi indossata, sarei stato orgoglioso di sfoggiarla; sarei stato l’unico con quella maglia, sarei stato un esemplare.
Ci siamo, le porte si aprono, quindi biglietto e documento alla mano. Sì perché il biglietto A4 stampato in bianco e nero era un’”esclusiva” di chi lo comprava dall’estero, e una volta arrivato all’entrata, se il lettore del codice a barre non autentificava il biglietto dovevi esibire il documento per verificare i dati dell’intestatario sul tagliando d’ingresso.
In poco tempo sono dentro. Primissime file. Tra me e il palco solamente una persona.
Il Bataclan si presenta come un teatro a pianta circolare con platea, una prima galleria rialzata di alcuni gradini e una seconda galleria accessibile da scale apposite. Mi ricorda molto il nostro teatro Rossetti. Un pavimento in tavole nude rende ancor più suggestivo il luogo. Sul palco già ben esposta la tastiera di Manzarek, una Vox Continental.
Non ci vuole molto a riempirsi; in platea non solamente giovani temerari ma anche cinquantenni curiosi e forse impreparati alla bolgia della serata. Qualcuno ne uscirà mal concio.
Osservo ogni piccolo particolare. Siamo pronti. Ulteriore attesa, la più estenuante ora che il tempo sta per scadere. Le luci si spengono alle ore 20 circa ma è un falso allarme. Il palco viene occupato da un cantautore folk. Ecco di chi era quella chitarra acustica appoggiata su supporto al centro del palco vicino al microfono. E io che temevo sarebbe stato lo strumento di Dave Brock. E sua era pure la scaletta attaccata con lo scotch sulla cassa spia vicino all’asta del microfono; tutti l’abbiamo fotografata allungando la mano e perplessi guardavamo poi l’immagine dal monitor perché non capivamo cosa centrasse. Il cantore termina il suo set, saluta e se ne va.
Ultimi preparativi e la tensione sale. I roadies sistemano le scalette della serata, passano i cavi, portano bottiglie d’acqua e asciugamani. Phil Chen gira sul palco e porta in vista il suo basso. Il tecnico video prende posto dietro al suo Mac alle spalle della postazione di Manzarek e prova il video proiettore; il fonico del palco tutto dall’altra parte del collega dei video è impegnato con la consolle. Ovviamente la disposizione dei musicisti sarà quella classica a cui siamo abituati nel vedere i filmati d’epoca. Il manager Tom Vitorino gira nervosamente sul palco per gli ultimi preparativi mentre i due bodyguard studiano la disposizione del pubblico a ridosso del palco non protetto questa volta dalle transenne e dal corridoio di sicurezza che abitualmente attenua l’urto della massa e permette interventi di soccorso e di sicurezza. Poi prendono la loro posizione ai lati della batteria.
E’ questione di attimi; i francesi sono famosi per essere più svizzeri degli svizzeri in fatto di precisione con gli orari ma stavolta, anche per il fatto della spalla che ha suonato prima, siamo ben oltre all’orario di inizio. Quindi da un momento all’altro…e la tensione sale!
Le luci si spengono d’improvviso come ad ogni concerto e la gente grida, applaude e acclama mentre dal banco del mixer è partita The Wheel of Fortune-O Fortuna dei Carmina Burana per aprire la serata come di consueto. Si mette in funzione il proiettore che lancia sul telo bianco alle spalle della batteria, una curiosa immagine: il ritratto in bianco e nero in primo piano di un Cristo sofferente creato con un gioco di composizione di immagini di personaggi e scene della Via Crucis.
Si intravedono dei movimenti dalla tenda del back stage alla sinistra del palco. Si vede la luce dei camerini e  gente che si muove.
Delle sagome al buio entrano in scena. I flash delle fotocamere non si sprecano e il teatro crolla tra gli applausi e le grida del pubblico. I musicisti prendono posto mentre l’annuncio “Ladies and gentlemen, from Los Angeles California, Ray Manzarek and Robby Krieger of the Doooooooooooors!” lancia ovviamente l’inizio della riunione con Roadhouse blues e le luci si accendono. La platea diventa una bolgia tra urla, canti a squarcia gola, salti e pogo sedato dalla presenza nelle prime file di gente non più adatta agli spazi per scalmanati.

VIDEO
Ladies and gentlemen, from Los Angeles California... 
(L'apertura del concerto e Roadhouse blues, Live at Bataclan 03/07/2011) 
 
Dave Brock comanda il palco a dovere; proprio lui e meglio non ci poteva essere perché estrapolato da una storica tribute band, i Wild Child, della quale ne era il frontman per svariati anni. Qualcuno se lo ricorderà ad un suo passaggio televisivo nel 1992 al  Maurizio Costanzo nel pieno periodo del ritorno Doors dopo il film di Oliver Stone. I Wild Child in quegli anni passarono in Europa un paio di volte per dei tour. Ricordo alcuni servizi su riviste e vidi quella puntata della trasmissione serale; Brock rimase seduto tutto il tempo senza venir interpellato fino al momento di dover rispondere al alcune brevi domande per poi esibirsi in una Back Door Man in playback versione studio. Il tizio che avrebbe dovuto suonare le testiere, un biondo cappellone baffuto, di stile vichingo, si sedette al pianoforte di Bracardi.
Alla fine mi risultò tutto molto patetico.
La corsa prosegue con l’inconfondibile groove di Break on through seguito dall’intro di organo. Proprio quel brano che nei primi giorni del gennaio del 1967 annunciava la band al mondo intero con quel loro primo disco che sarebbe stato definito come uno dei migliori debutti della storia della musica. Bello è stato sulla parte finale del brano, vedere Phil Chen girato verso la batteria con il piede sinistro appoggiato sul ripiano che rialzava la sezione ritmica di Ty Dennis e guardarli mentre si osservavano compiaciuti durante la perfetta sincronia dei loro due groove.
Ma chi sono questi due musicisti per lo più sconosciuti? Il batterista Ty Dennis è un baldo giovanotto vecchia conoscenza della band, e ancora prima di Krieger; sembra che i due suonassero assieme addirittura con la Robby Krieger Band. Nel filmato dei Doors 21Th Century del 2002, il drummer è proprio lui. Il bassista invece è uno storico sessionman molto noto negli anni ’70. Ha suonato con Jeff Beck e Rod Stewart. Pure lui vecchia conoscenza di Krieger.
Poi è la volta di Strange days seguita da When the music’s over accolta dal pubblico con un boato. Guardo Manzarek mentre esegue lo storico intro e mi accorgo che lo sta suonando con una mano sola. Ecco il motivo del bassista musicista aggiuntivo. La mano sinistra di Ray non riesce più a gestire uno strumento ulteriore. La loro particolarità era proprio questa, l’assenza di un bassista. Problema risolto con una testiera basso suonato da Manzarek con la mano sinistra, mentre la destra comandava l’organo. Suppongo fosse un gioco non da poco; doveva essere come suonare un altro strumento. Ora però le cose, magari con dispiacere, sono state semplificate.
Viene presentata la band, si torna a correre con Peace Frog e ovviamente Blue Sunday.
Qualcuno cerca di invadere il palco senza successo. Il tizio dietro a Manzarek, al controllo dei video, intuisce le intenzioni di qualcuno e abbandonata la sua postazione, si getta a bordo palco e scaraventa sul pubblico il malintenzionato. Subito arriva pure uno della security e in due rimangono a per alcuni istanti a controllare la faccenda.
Ancora altre tre volte qualcuno cercherà di invadere il palco ma i due bodyguard, all’apposito segnale scatteranno come levrieri per afferrare la loro preda, sollevarla dalla folla e portarla nel bakcstage. Qualcuno però ha combattuto con loro. Ha giocato a chi era più furbo. Un tizio posto di fronte a Krieger dopo alcuni tentativi di invasione, era tenuto d’occhio dai due uomini. Uno addirittura a gesti gli faceva capire di stare a controllarlo. Alla fine però hanno vinto loro. Un altro invece li ha fregati. Alla  mia destra ad un certo punto vedo uno che sta per salire sul palco e per poco non viene acciuffato. Lui però ha altre intenzioni. Non appena riesce a mettere i piedi sul palco, si accoscia e si spinge indietro sopra la folla. Un grandioso stage diving sopra la mia testa, sorretto dalle mani del pubblico che lo faceva scorrere lontano dal palco verso la fine della sala. Non lo dimenticherò mai quel tizio. Jeans blue, scarpe da ginnastica e una felpa legata ai fianchi. Mi è passato vicino, l’ho sentito gridare “Yeah!!!” e rideva con lo sguardo verso il soffitto mentre spariva sopra le nostre teste inghiottito dal buio della sala. Mi volto nuovamente verso il palco per assaporarmi lo spettacolo e vedere quell’incredibile sosia di Morrison non solo nelle sembianza, nella voce e nel cantare, ma anche nel muoversi e nel comportarsi; agita l’asta microfonica sopra il pubblico, lascia penzolare il microfono dal suo cavo sopra le teste degli spettatori.
Ovviamente questa sera non si tralascia l’anniversario. Ray spende alcune parole e chiede chi del pubblico fosse stato presente al cimitero. Ovviamente si alzano una miriade di mani tra le urla. Ma poi prosegue ricordando che è pure l’anniversario dei quarant’anni della pubblicazione di L.A. Woman, “…e noi questa sera ve lo soneremo tutto! Changeling, Love her madly, Been down so long, Cars hiss by my window, L.a. Woman. L’America, Hyacinth house, Crawlin king snake, Wasp e Riders on the Storm!”, dice Manzarek al pubblico incredulo mostrando la lista completa dei brani.
E così via fino all’ultimo brano Riders on the  storm anticipata da The Hitchhiker poem recitata da Brock mentre Ray e Robby abbozzavano la melodia della canzone. Se non ricordo male, c’era una base di pioggia e tuoni mentre sullo schermo scorrevano delle immagini di un cielo nuvoloso. Ray chiede di abbassare le luci, l’atmosfera si fa intensa e quindi partono in quella dolcissima suite che chiudeva la loro storia a quattro. Come se l’avessero fatto di proposito quel brano con la pioggia. Un temporale che scatenava i suoi tuoni e il brano stesso che terminava con tastiera e chitarra che suonando richiamavano alle ultime gocce. Sembra quasi sia stato un saluto, come se con quel brano si fosse giunti alla quiete dopo la tormenta degli ultimi cinque anni.

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Riders on the storm (Live at Bataclan, 03/07/2011) 
Le luci si accendono e dopo i saluti i musicisti escono di scena ma ovviamente rientrano sul palco. In programma hanno in scaletta un solo bis che dovrebbe essere Light my Fire, ma le circostanze non possono renderli avari. Attaccano con Love me two times che aizza ulteriormente il pubblico sulle prima note di Krieger e si scatenerà ancor di più sulle grida di Brock prima dell’assolo di Manzarek.

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Love me two times (Live at Bataclan, 03/07/2011) 
Nuovamente davanti al pubblico del Bataclan, Brock inizia a chiedere quanti brani vogliamo. Io che sto davanti a lui, alzo la mano e gli indico “5”, altri acclamano i nomi dei brani e The End sembra essere la più gettonata tanto da sembrare di stare in una grotta ad ascoltare l’eco che si ripete più e più volte.
Manzarek è stanco; seduto dietro la sua tastiera, appoggia gli occhiali sullo strumento e si passa le mani sul volto. Mentre lo guardo, al suo fianco, uno dell’entourage si accovaccia a bordo palco per assistere qualcuno delle prime file. Approfittando dunque di questo momento di distrazione, uno del pubblico sale sul palco, corre alle sue spalle, passa a fianco di Manzarek e a meno di un metro via da me, salta sul pubblico impreparato creando una voragine. In quel momento stavo filmando e la scena la riprendo solo in parte. Per proteggere la macchina fotografica, l’ho abbassata. Mi giro e dietro a me vedo uno spazio impensabile, creato da chi per tempo si è tirato indietro e da chi è stato invece atterrato dal malaugurato uomo volante steso a terra sopra ai corpi degli atterrati. 

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Prove di stage diving e Five To One (Live at Bataclan, 03/07/2011) 

Five To One (Live at Bataclan, 03/07/2011), a video by TheLz69 

Una ragazza molto vicina a me, ha gli occhi lucidi e rivolti verso l’alto. Sta ondeggiando, deve essere stata colpita. Se cade per lei è finita perché la gente sta rapidamente riempiendo la falda senza esitare. Allungo il braccio, la afferro e me la tiro addosso abbracciandola. Le chiedo in inglese se sta bene. Mi risponde lacrimando e facendomi un segno con la testa, poi si gira e si fa consolare dall’amica.
Generosi i componenti della band, concederanno Light My fire come ultimo brano, ma non prima di un ulteriore sorpresa che sarà Five to one. Inaspettata dal pubblico, quanto fuori programma per la band, il ritmo con cadenza marziale del brano ipnotizza gli spettatori. La bolgia della platea inizia a pogare lentamente ma in modo deciso e pesante. La situazione degenera in men che non si dica e mi rendo conto che se voglio uscire illeso devo difendermi. Inizio quindi a spingere e a rispondere fisicamente a chi mi viene addosso spedendolo da dove è arrivato. Lo stesso fanno gli altri con me. L’importante è rimanere in piedi. In un bagno di sudore come poche volte, mi gusto il finale storico proteggendomi i petto e i fianchi da eventuali colpi e cercando di proteggere pur la macchina fotografica. Più di qualcuno tra il pubblico non ce la fa più o si sente male. Non soltanto i due omaccioni addetti alla sicurezza dovranno occuparsi di chi chiede aiuto; pure il manager della band e un altro dello staff si gettano in prima linea occupandosi della parte destra del palco. La gente li chiama, fa notare che qualcuno non sostiene più il ritmo. Loro accorrono, afferrano da sotto le ascelle i corpi passati loro da chi ancora è in se, li sollevano e li portano nel backstage a peso morto. Tra uno spintone e l’atro andando a destra e sinistra, mi si incrociano inspiegabilmente le gambe; perdo l’equilibrio e sto per cadere. Dietro a me la sfiga vuole che si stia formando una pericolosa voragine. Per mia fortuna l’onda d’urto ricevuta torna indietro e il pubblico riempie il buco formatosi e mi rimetto in piedi riallineando le gambe. In questo casino non riuscirò a filmare l’inizio di Light my fire; proprio mentre stavo cambiando le batterie, ostacolato dalle mani sudate che scivolavano sulla plastica dello sportello, il pubblico ha iniziato a spingere nuovamente.
Sulle storiche note del loro brano, si chiude l’esibizione. A centro palco i 5 eroi salutano e se ne vanno. I roadies lanciano al pubblico sfoltito della platea trofei quali bacchette, asciugamani, tappi delle bottigliette.
Trovo tra la folla qualcuno di quelli di Treviso e li ritroverò anche fuori dal teatro. Mi prendo una birra al bar. Ne ho bisogno, sono fradicio e ho sete. Non ci sono gadget di nessun tipo. Peccato. Fuori c’è un forte assembramento davanti al teatro. Il bar è preso d’assalto. Dopo un bel po’ di tempo dalla via laterale sbuca la medesima auto nera che al mattino li ha portati in cimitero. Dalla porta di servizio Manzarek e Krieger sono usciti, saliti in macchina e tra gli applausi la vettura se ne va facendosi largo tra la folla. “It was the greatest nigth of my life…”, sì, proprio come cita Graveyard Poem, la poesia recitata da Morrison sul finale di un noto live di Light my fire e che Brock ha replicato stasera.

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 Light my fire (Live at Bataclan, 03/07/2011)




IV° - "Il concerto di Grado "

Lunedì 4 luglio, dunque si torna a casa. Nel primissimo pomeriggio, giungo all’aeroporto con largo anticipo. Durante il viaggio in treno, mi sono gustato le foto delle giornata precedente completando l’ascolto degli ultimi mp3 della doorsiana discografia, iniziato all’aeroporto di Ronchi il venerdì sera e proseguito in perfetto ordine cronologico di pubblicazione di Lp. Non appena vedo su uno dei tabelloni la scritta Tel Aviv, mi balza in testa un idea pazza e malsana. Andare a cercare il gate con destinazione la città israeliana e chissà che non me li ritrovi davanti dato che la loro prossima data sarà proprio lì il giorno seguente…lasciamo perdere che ancora non combini qualche casino. Rientro regolare quindi. A Roma, tra un aereo e l’altro telefono ad Antonella e le racconto del week end. Le svelo il tour de force del quale non avevo raccontato nulla a nessuno per pura scaramanzia e la invito, assieme a Max, alla data di Grado del 10 luglio. La sera stessa giunto finalmente a casa, mi precipito su internet e trovo che già qualcuno ha postato su Blogspot un resoconto della serata parigina, per non parlare dei video su Youtube. Immediatamente inoltro i link a Paolo che non tarda a darci un’occhiata e commenta così: “…dopo aver visto i video devo dire che trovo tutto molto irreale! Il tizio non solamente canta come Jim. Mi fa impressione vederlo”. Il giorno dopo ci sentiamo telefonicamente e scambiamo alcune impressioni. Approvo pienamente il fatto che abbiano scovato un cantante come Dave Brock. Era indispensabile mettere a giocare in quel ruolo una “precisa goccia d’acqua” di Morrison. Altrimenti lo spettacolo non avrebbe retto. Non so cosa poteva essere peggio se uno scimmiotto oppure uno che non richiamava per nulla Jim. Piuttosto il fatto che avessero un bassista era un particolare che non mi andava giù; i Doors erano sempre in quattro e Manzarek suonava la testiera basso. Un quinto elemento era di troppo e il “troppo stroppia”. Ma come già detto, evidentemente Ray non riesce più da tempo a tenere le due linee strumentali diverse e separate come una volta. E già quella è stata un impresa che gli valse un titolo come migliore musicista dell’anno se non sbaglio.
Tutta la settimana corse via velocemente mentre mi godevo il viaggio a Parigi e la prospettiva di vedermeli nuovamente una settimana di distanza a pochi passi da casa mia.
E’ domenica 10 luglio, da poco sono passate le 15 e ci stiamo preparando per partire. Ieri sera però hanno suonato al Pistoia Blues. Vado dunque a vedere se ci sono delle recensioni in rete. Voglio vedere cosa dicono e soprattutto se il pubblico ha creato problemi come a Parigi. Purtroppo le cose son andate addirittura peggio. Una recensione racconta di un pubblico che spingeva fino al punto da abbattere le transenne e costringer la band a sospendere momentaneamente l’esibizione, anche se prima di riprendere a suonare erano un po’ timorosi. Fortunatamente la serata di Grado sarà tutt’altro che pericolosa.
Dunque Grado. Io, mio padre e Toni. Un po’ agitato ammetto di esserlo ma non tanto per il fatto del concerto ma per paura di trovare tanta gente davanti al cancello. Anche questa sera voglio essere in prima fila. Arriviamo all’entrata e con immensa gioia vedo che alle 18.20 la gente che attende è davvero poca. Ci mettiamo in file, ma prima delle 20 non apriranno. Allora mio padre dice “possiamo stare tranquilli, ne abbiamo di tempo. Che facciamo? Andiamo a fare quattro passi?” Lo guardo e gli dico “Ma sei matto? Io da qui non mi muovo. Un'altra opportunità simile non mi capiterò mai più!”. Attendiamo allora con pazienza. Durante l’attesa in fila si parla di quanto ci aspetterà durante la serata. Racconto di Parigi e della storia dei quattro “super eroi”. Noto che la gente attorno tira l’orecchio per ascoltare e alzo lievemente il volume della voce. Un ragazzo di Vicenza entra nel discorso e piacevolmente discutiamo tutti assieme. Gli faccio vedere la scaletta della serata consegnatami al banco degli accrediti assieme al poster e mi chiedono se lo spettacolo meriti i soldi del biglietto. Avendoli già visti una settimana prima posso garantire.
I cancelli si aprono e nonostante non ci siano chissà quante persone davanti a noi, tutti occupano il posto sulle transenne davanti alla tastiera di Manzarek. Noi prendiamo posto davanti la postazione di Krieger.
L’attesa sta volta è davvero snervante. Fortunatamente siamo all’aperto, sulla diga in riva al mare. Il palco davanti a noi sta sotto ad alcuni pini; alle nostre spalle invece, il mare e la baia di Trieste.
Poco prima della 21 arriva il furgoncino dell’organizzazione dal quale scendono i musicisti. Lo segnalo ai miei due compagni e la voce si sparge mentre li scorgiamo passare sotto gli alberi tra le aiuole dietro al palco.
Tutto è pronto ma chissà perché, lo show inizierà verso le 21.30. Intanto il manager Tom Vitorino impartisce gli ultimi ordini ai fotografi già nel corridoio di fronte al palco. Finalmente anche ci siamo e quindi si spengono le luci. Lo spettacolo previsto, è identico pressappoco agli altri del tour, ma diverso da Parigi. Questa sera non hanno in programma l’intera esecuzione di L.A. Woman; al posto dei brani non in programma altre bellezze musicali che poi non eseguiranno. Mancheranno all’appello  Gloria, Riders on the storm, Spanish caravan. Ma per soddisfarci dovrebbero eseguirle tutte. Salgono sul palco e la folla impazzisce. I fotografi corrono da un lato all’altro per immortalare gli artisti. Krieger,che si può muovere senza problemi è preso d’assedio quando davanti a noi si lascia andare in un breve duck walk alla Chuk Berry.
Tra Break on through e Strange days, cerco di attirare l’attenzione di Robby. Ho un messaggio scritto su di un foglio A4:“I WAS IN PARIS LAST WEEK!”. Purtroppo nulla da fare. Manzarek saluta il pubblico e parla al microfono, scruta la gente e indica verso la fine della diga, dove suppongo le teste si vedevano a mala pena, confondendosi con il buio che si distingueva dal mare solo per il riflesso sull’acqua della luna e delle luci di Trieste e del litorale istriano sullo sfondo tutto dall’altra parte del golfo. Ray prosegue con i saluti “All you guys are ok?” e il pubblico ricambia acclamando; scruta e parla ancora, poi gira la testa e guarda verso l’esatta estremità del palco opposta alla sua posizione. Io mi sporgo oltre le transenne e mostro il mio foglio. Manzarek, con la mano sulla fronte per facilitarsi nella vista altrimenti ostacolata della luce dei fari, stringe un po’ gli occhi, allunga il braccio e con il dito indice indica verso di me. Attenzione, sembra avermi visto. Poi dice “…some body was in Paris Last week, very good for you man!”. Per educazione si risponde, ed io alla sua chiamata ribatto immediatamente forse più per istinto che per una questione di lucidità. Mi sporgo oltre alle transenne che quasi cado dall’altra parte. Uno della sicurezza con scatto da velocista parte per prendermi. Per puro caso con perdo l’equilibrio, quindi alzo il braccio con il messaggio in mano per farmi vedere e grido “In Paris! In Paris!”.

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Ie e Ray Manzarek 

Non ci credo, Ray ha letto il mio messaggio, mi ha visto, mi ha trovato tra le prime file. Tutti sanno che io ero a Parigi la settimana scorsa. Tutti lo sanno, il pubblico, la band…tutti! La musica riprende e approfitto del mio attimo di gloria per farmi immortalare assieme al mio messaggio da Simone Di Luca, fotografo autorizzato, e finire sul sito di Azalea Promotion, organizzatori della serata, nella pagina dedicata all’evento.

Fotografie ufficiali del concerto di Grado alla diga Nazario Sauro (by Simone Di Luca)

Il resto del concerto non lo riporto. Sarebbe la solita cronaca noiosa e la mia impresa vale tutto la serata!
Al termine del concerto, durante il quale il pubblico non ha fatto temere nulla di quanto avvenuto la sera prima, tra la folla incontro Fabietto e Vannijoe del gruppo di Treviso. Fuori intanto la gente da la caccia a poster e volantini, mentre un ragazzo e una ragazza fuggono di corsa verso il ristorante “L’Androna”, dove su segnalazione di un gelataio intento a fumare sulla porta del suo negozio, ha fornito ai due la dritta di dove poter trovare la band portata ora a cena. Intanto gli spettatori del concerto, gli abitanti della cittadina e i turisti passeggianti si confondono sui viali di Grado in una notte d’estate che potrà sembrare una qualsiasi. Ma per qualcuno invece è una notte del tutto unica e speciale.
Sono trascorsi diversi mesi da quelle due settimane passate sulle note musicali partite da Venice Beach in California. Soltanto ora ho potuto mettere a punto questo mio resoconto che tra una menata e l’altra per la sua stesura ha tardato a veder una conclusione. In molti ancora oggi mi chiedono di raccontare le mie sensazioni di Parigi e io soddisfo la loro richiesta raccontando anche di Grado. Alcuni mi presentano agli altri come “lui è quello di cui ti dicevo…è stato a Parigi…”. Ma cosa mi rimane di tutto questo? che significato ha avuto? perché si fanno queste cose? Oltre alle foto, le registrazioni, i filmati, i gadget raccolti un po’ dappertutto, ovviamente mi rimangono i ricordi vivi che talune volte senza neppure chiudere gli occhi, rivivo in maniera così intensa da sembrarmi di essere lì, sentire il profumo dell’incenso, il caldo dell’estate, il vociare delle persone. Tutte queste sensazioni e ricordi però sono nulla in confronto alla soddisfazione che provo tutt’ora. E’ parte di me, è divenuta cosa della mia vita che nessuno potrà mai portarmi via. E’ un trofeo, un tatuaggio indelebile e invisibile da esibire al momento giusto. Ma perché si portano a termine queste imprese? Perché si crede tanto in alcuni valori così astratti, impalpabili che a qualcun altro possono voler dire nulla? Chiedete ad un tifoso di una squadra il motivo per il quale indossa i colori del cuore, chiedete ad un sostenitore politico perché tanto crede nelle parole di un uomo che solamente parla, chiedete ad un appassionato di qualsiasi genere di passione si tratti, il motivo di tanto credere nel suo ideale. La sua risposta sarà sempre la stessa, banale, ovvia, logica, già sentita e uguale risposta che vi daranno tutti quanti. In realtà dietro alla risposta di alcune misere parole c’è un significato ben più grande che non si può esprimere parlando e che probabilmente ignoriamo esserci. E’ qualcosa che viene dal profondo del cuore, che nasce senza un perché e che ti porta ad approfondire la conoscenza, ti stuzzica la curiosità e cresce sempre. E’ stata una fortuna andare a Parigi e soprattutto una scelta sensata partecipare. Ha consolidato la mia passione e mi rende forte sulle mie idee ed esperienze. Non so a quanto sarà servito scrivere tutte queste righe e quanti le leggeranno fino in fondo, ma sentivo il bisogno di farlo per raccontarlo a chi avrebbe voluto esserci assieme a me ma non ha potuto farlo, e quindi sono stato lì anche per loro a rappresentarli, e quindi a loro lo dedico. Ma l’ho fatto soprattutto per gridarlo e vantarmi con chi tanto parla e sparla ma alla fine è solamente un fannullone. Se siete degli smilzi che per sopperire ad alcune mancate soddisfazioni esaltano i loro amici mediocri musicisti con il solo scopo di esaltare se stessi, se portate il nome di un pesce noto alla televisione volendo far credere a tutti di essere i più grandi e mancate di rispetto a chi vi circonda che vi considera dio e voi invece ne approfittate senza ritegno, allora potete solamente far vedere che avete le tasche vuote come lo siete voi. So che lo posso fare senza vergogna e quindi me ne vanto davanti a voi, perché ora che ci ripenso nuovamente per l’ennesima volta e mentre rivivo ogni determinato istante con le lacrime di una bella e soddisfacente emozione agli occhi come un bambino, posso dirvi con altrettanta soddisfazione di starvene zitti, perché IO ERO A PARIGI!



Link utili:

Sito ufficiale di Ray Manzarek e Robby Krieger

The Doors Collector Magazine; memorabilia, informazioni, rarità. Fondato e curato da Kerry Humphreys. Il suo nome appare tra i i ringraziamenti del libro di Greg Shaw Jim Morrison e i Doors-On the road-Tutti i concerti.

Pagina di Rainer Moddemann, noto personaggio nell’ambito Doors. Il suo nome appare tra i crediti del documentario The Doors in Europe e tra i ringraziamenti del libro di Greg Shaw Jim Morrison e i Doors-On the road-Tutti i concerti.
Questo link contiene utili informazioni e itinerari precisi inerenti la storia dei Doors e di Jim Morrison per le città di Parigi e Los Angeles.

Organizzazione eventi; organizzatori del concerto di Grado del 10 luglio 2011, e del concerto di Krieger e Desmore a Lignano nel luglio del 1998.

Due blog contenenti svariato materiale di concerti avvenuti a Parigi, compreso quello del Bataclan del 3 luglio 2011.

Alcuni degli utenti che hanno condiviso materiale video
                                                                                       
Concerto di Parigi 03 luglio 2011
http://www.youtube.com/user/pellegrinodelsuono(il mio account YouTube)