Su di un
vecchio numero di Marble Moon del
1998, appariva una recensione del primissimo concerto italiano del Blood Axis, a firma di Max Ribaric.
Questi due
nomi a dieci anni di distanza hanno solidificato il loro rapporto anche se la lontananza
tra Europa e America ha permesso loro di vedersi ben poche volte in entrambi i
continenti.
Ma il legame
dura, prosegue, si consolida ogni giorno sempre più; prende forma, diventa un
embrione, un germoglio che sboccia una decade più tardi con la pubblicazione di
Day of Blood.
La mia
amicizia con Max risale dai tempi della scuola, ovvero i primi anni Novanta.
Poi le strade si divisero e si incrociarono nuovamente verso la fine dello
stesso decennio. Nel frattempo le nostre passioni erano maturate, si erano
ampliate e avevano intrapreso un percorso ben preciso e minuzioso per quanto
riguarda Max, e forse un po’ troppo ampio e curioso per quanto riguarda il
sottoscritto.
Nell’estate
del 1999, durante un corso di formazione, incontro Max dopo molti anni. Ci
eravamo intravisti un po’ di tempo prima al Teatro Miela in occasione di alcuni concerti aventi per
protagonisti Tony Wakeford, Kirlian Camera e Theatrum Chemicum. L’incontro a questi eventi cittadini, ha dato il
via a delle chiacchierate inerenti i nostri interessi musicali, tra i quali
spiccava una comune simpatia per gli sloveni Laibach, ed invidiavo tremendamente Max per averli visti quattro
anni prima nella loro unica esibizione triestina.
Io gli
raccontavo dei Doors, dei Gong di Daevid Allen, degli Ozric
Tentacles e degli allora appena sciolti C.S.I., mentre lui mi parlava dei Death in june, di Der Blutharsch,
di Boyd Rice e del progetto Blood Axis.
Lo scambio
di materiale musicale e l’accompagnarsi a diversi concerti nel corso degli anni
si è fatto tra noi sempre più fluente e in continuo aggiornamento.
La voglia
di redigere una monografia sul progetto statunitense Blood Axis di Moynihan,
a me era cosa nota già da un po’ di tempo, sapevo che il lavoro era in continuo
svolgimento e che la fase di ultimazione era oramai giunta, in attesa del “dove e da chi farla stampare” per un’edizione
veramente speciale. Dettaglio non da poco.
Ciò che non
sapevo ancora però, era la cosa forse più interessante di tutto questo, ovvero
che Max e la sua ragazza erano stati nel Vermont,
a casa di Michael e della sua
compagna Annabel, oltre che per un
viaggio di piacere in visita alla coppia di amici, anche per la correzione
definitiva di questo lavoro atteso ben quattro anni, e conoscendo Max,
indubbiamente sarebbe stato preciso, approfondito e dettagliato.
A dieci
anni della pubblicazione giornalistica della prima apparizione italiana del Blood Axis, nel giugno del 2008 il
mondo ha la possibilità di leggere uno dei documenti più sensazionali a mio
avviso, per quanto riguarda l’ambiente underground, non commerciale o di
nicchia... chiamatelo come volete.
Tiratura
limitata in cinquecento copie di cui il primo centinaio riportano stampato in
rilievo sul retro della copertina il simbolo dell’Occidental Congress, ovvero la spada ideata per marchiare tutto
quello che l’O.C. crea; io ho la fortuna di essere stato uno dei primissimi
acquirenti e di possedere dunque una di queste copie con dedica, oltre che aver
recensito per primo il libro sulla mia rubrica.
La voce
dell’imminente uscita di questo volume era attesa nell’ambito della scena neo-folk
e industrial con molta impazienza, e in fase di ultimazione di stampa, numerose
copie erano già state ordinate da diverse zone del Bel Paese, per non parlare
di paesi come Germania, Austria, Svizzera, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna,
Croazia, Belgio, Danimarca, Francia, Svezia, Russia nonché Stati Uniti.
Da noi in
Italia, chiaramente i contatti con l’autore erano già stati stabiliti da
parecchie persone.
Io
rappresento la ristretta cerchia di “mosche bianche”, persone estranee all’ambiente
in senso stretto, che hanno dimostrato interesse al progetto, quindi la mia
copia per timore dell’autore, sembrava potesse servire solamente per fare
spessore sotto la gamba di un tavolo traballante e comperata dunque per pura
gentilezza nei confronti di un amico.
Pretesi di
pagare l’opera a prezzo pieno, in quanto autoprodotta con nessun interesse di
guadagno se non quello della soddisfazione di veder realizzato un progetto
tanto desiderato.
In alcuni casi,
durante i nostri incontri, Max scherzava sul fatto che io il libro non lo avrei
mai letto, mentre lo rassicuravo dicendogli che ci sarebbe voluto un po’ di
tempo ma che alla fine avrei scorso attentamente riga per riga, pagina per
pagina fino all’annuncio ufficiale di ben un anno dopo: “ho finito di leggere il tuo Day of Blood. Quando ci vediamo per
discuterne assieme?”, in risposta ricevetti un compiaciuto “…quando vuoi, non vedo l’ora. Grazie per
esserti immolato per la causa!”
Ben
volentieri mi immolai, se così vogliamo proprio adoperar questo termine; e la
sorpresa fu davvero notevole.
Il libro a
primo impatto si presenta come una normale biografia, e ciò era tutto nella
norma.
Un po’
stopposo l’inizio probabilmente, con i consueti dati anagrafici, vita
adolescenziale e informazioni che in ogni biografia di rispetto non mancano
mai, ma con lo scorrere delle pagine, la faccenda si fa davvero interessante.
L’impostazione
e il modo in cui è stato scritto il libro, argomenti dei quali ritornerò a
parlarne più tardi, risaltano e chiariscono la particolarità del personaggio chiamato
Michael Jenkins Moynihan, e tutto
ciò che ha creato nella sua vita e soprattutto di come lo ha fatto.
Se lo
guardiamo con occhi qualsiasi, il suo stile di vita sembrerebbe uguale ad una
qualunque rock star americana; potrei paragonare questa biografia ad una di
Jimi Hendrix che ho letto alcuni anni fa, ma in tal caso rimarremmo solamente a
livello di vita vissuta. Se andassimo avanti con il paragone, riducendo
all’osso l’argomento, beh, giungeremmo alla solita vita di moltissimi ragazzi
che vogliono intraprendere la loro strada contro la volontà dei genitori
dandogli mille pensieri per chissà quali e quante discutibili esperienze che
intraprenderanno lontano dall’ala protettrice della famiglia.
Forse
unico, ma vorrei comunque definirlo davvero raro, Michael Moynihan, è uno di
quei personaggi che dopo la lettura di una biografia come questa vorresti
fargli un numero non ben definito ma enorme di domande per sapere che cosa lo
ha spinto ad intraprendere tali strade così diverse tra loro ma parte
integrante dello sviluppo di una persona che in un caso come questo non si può
definire percorso artistico ma personale!
Nella
prefazione firmata da Massimiliano
Rossignani, Moynihan viene definito nel modo più corretto che si possa
adoperare per descriverlo: “Michael
Moynihan è sempre stato un cercatore: prima ha assassinato l’industrial di Coup
de Grâce, e poi ha allontanato l’apocalisse di the Gospel of Inhumanity per
convergere all’indirizzo del folk tradizionale. Imprimendo il suo genio, ha
animato di nuova energia antiche ballate dal sapore immortale”.
Nulla di meglio
può descrivere in due parole questo personaggio e il suo cammino evolutivo.
Editore/giornalista con la sua fanzine Coup de Grâce nella prima metà degli
anni Ottanta, con lo stesso nome svilupperà il suo progetto per la produzione
di video cortometraggi, e sarà performer-musicista industrial in Europa e
Giappone sotto l’ala protettrice di Boyd
Rice, con il quale collaborerà dando inizio proprio da qui all’attività
musicale vera e propria se così possiamo chiamarla fino a svilupparsi in quel
progetto, Blood Axis, che potrà mutare in Witch-Hunt
a seconda dell’evento al quale si deve prendere parte.
Cronista
per la rivista newyorkese Seconds
Magazine, per la quale ha pubblicato delle interviste integrali senza
ritocchi eseguite personalmente a Charles
Manson e Anton LaVey, l’attività
editoriale più nota a tutti è la collaborazione con il giornalista Didrik Søderlind per la realizzazione
del volume Lords of Chaos -The Bloody
Rise of the Satanic Metal Underground, con materiale raccolto dopo anni di
lavoro mettendo assieme interviste, testimonianze e resoconti di avvenimenti
premiati con il Firecrackers Award
per il miglior libro a carattere musicale del 1998.
Ciò che mi
incuriosisce è l’evoluzione artistica e interiore del personaggio Moynihan,
analizzato e sezionato da Max Ribaric in ogni sua possibile parte, messo a nudo
il suo carattere evolutivo, il percorso intrapreso per ogni elemento,
personalità, interesse che sia passato sulla sua strada, dedicandone delle
parti apposite.
Il nostro
protagonista ci illumina su come si può intraprendere una strada artistica che
non segua i soliti schemi della scena commerciale dei mega store ai quali siamo
abituati.
Per essere
più chiaro, e nessuno mi voglia del male se sarò banale e semplice ma lo faccio
per spiegarmi brevemente e in modo diretto, vi farò un sunto davvero veloce e
portato all’osso: per quale motivo bisogna intraprendere un tour e fare
concerti esclusivamente per la presentazione di un disco?
Blót - Sacrifice in Sweden ne è il
chiaro esempio, registrato dal vivo durante la serata dei dieci anni di
attività della Cold Meat Industry può
essere considerato a tutti gli effetti un disco live totalmente atipico (non
per nulla Max nel libro racconta dello scetticismo che molte persone nutrivano
nei confronti di una registrazione dove sembra non esserci l’effettiva presenza
di un pubblico); che scopo ha mantenere attivo il marchio di fabbrica se non
produce lavori inediti, se si presenta con testi di brani non suoi in sporadici
concerti? Proprio questo è il bello, ovvero non avere vincoli, effettuare
apparizioni per il puro gusto di farle e realizzarle eseguendole con brani
della tradizione popolare o mitologica dell’Europa del Nord oggetto di studio
di Moynihan, suonatore di bodhrán accompagnato
dai suoi fidi collaboratori, nomi quali Markus
Wolff, Robert Ferbrache, Jól Arthur Loose, Aaron Garland, Scott
Broderick nonché la sua amata Annabel
Lee.
Si può
partecipare ad un evento come la creazione di una raccolta da pubblicare in
occasione di una commemorazione o di un anniversario, assieme ad altri nomi
della medesima scena, registrando un brano mai eseguito e magari apparendo con
un nome diverso da quello solito quando i componenti del gruppo sono sempre gli
stessi? Si può sì, eccome… magari lo si potesse fare pure in altri contesti… altro
che vincoli contrattuali, di immagine e di mercato.
C’è bisogno
di curare l’estetica e la forma con la quale si darà in pasto al pubblico i
propri lavori fornendo confezioni ben curate in tiratura limitata con
particolari contenuti come foglie di alberi provenienti dallo stesso luogo dove
è stato registrato il live? Lo stesso Max alcuni anni fa mostrandomi la
confezione di Blót mi disse quanto raccontatogli
da Moynihan, ovvero che essendo materiale per pochi, era bene realizzare delle
produzioni curate minuziosamente.
Quante cose
si potrebbero ancora dire, ma vale la pena leggere il testo in prima persona per
capire ciò che ho appena detto, per percepire l’essenza della ricerca
effettuata e della maturazione artistica svoltasi e che si sta svolgendo, oltre
che per scoprire un ambiente che Day of Blood mette per bene in luce sotto i
riflettori; un ambiente dove le band non vengono necessariamente sempre
chiamate con questo termine ma con l’appellativo di “progetto”, dove l’estetica e la presenza scenica hanno un loro
perché e vanno curate in quanto giocano un ruolo fondamentale che va oltre a
quanto si possa immaginare per un palco fatto semplicemente di luci e colori.
Un palco
sul quale non si consuma la serata e basta, ma sul quale avviene un rito, una
rappresentazione popolare riscoperta, inscenata o del tutto inedita, e vestita
in modo tale non da essere una moda e basta ma per fare da collante tra
spettacolo, pubblico e artisti.
Durante la
lettura si trovano moltissimi rami che dal filo conduttore portano il lettore
in momentanei discorsi paralleli e necessari per capire il significato di ciò
che si sta trattando, ma saggiamente ridotti all’essenziale dall’autore in modo
da rendere il testo esaustivo per chi legge e allo stesso tempo stuzzicare la
voglia di approfondimento con i riferimenti giusti per poter trovare le
informazioni necessarie al fine di completare le proprie ricerche.
Il testo
scritto al limite dello stile saggistico, e trattato in modo da poter essere
letto e capito da tutti, oltre a essere corredato con delle note esaustive
poste dove l’autore lo riteneva necessario, si conclude con un’esauriente
intervista a Moynihan ad opera di Marco Deplano,
con la quale si tratta l’argomento “sviluppo” del progetto Blood Axis e la
rotta che potrebbe intraprendere prossimamente; posta a termine del libro, non
poteva trovare inserimento migliore. Il protagonista che tira le somme sul suo
operato e svela i suoi progetti e le sue influenze, dopo che per tutta la
lettura lo sguardo si è riposato adagiandosi su di innumerevoli fotografie,
volantini, poster e immagini rare tratte dall’album personale di famiglia.
Inutile
dire che è presente la discografia completa con Lp, cassette, dvd, live e
bootlegs; immancabile su qualsiasi altra biografia, figuriamoci su di questa.
Nella mia
copia, all’interno della copertina, ho inserito la fotocopia della recensione di
Max del concerto di Roma del 1998; la conservo ancora e lui lo sa; sa che
conservo tutto e non per nulla una volta mi ha definito un inguaribile
archivista.
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